domenica 26 aprile 2009

Vivere, convivere e sopravvivere


Quando si va al liceo, la vita universitaria ci appare come qualcosa di aureo e prezioso, un obiettivo da raggiungere, un limite a cui tendere costantemente. Innanzitutto, si studia quello che ci piace. Primo mito da sfatare: è vero, infatti, che si può scegliere l'indirizzo che più ci aggrada (passando per esempio bruscamente dalle tragedie greche di un liceo classico, ai chetoni e agli amminoacidi di una facoltà puramente scientifica... ehm...), ma non necessariamente significa che tutto quello che abbiamo da studiare ci entusiasmi e ci interessi. Se è così, tanto meglio; purtroppo, nella maggior parte dei casi, la mia teoria è però comprovata. Capita, infatti, che la scelta compiuta non sia pari alle aspettative, o che determinate pagine siano assolutamente impossibili da ficcarsi in testa. Altra assurda convinzione dello studentello carico di speranze per il futuro è che l'università sia... più facile. Va bene, è vero che non si vive con la costante ansia di poter essere interrogati ogni mattina, magari a sorpresa; che non si ha l'apprensione di spostare i banchi prima del compito di latino (il quale si ripete con una frequenza di ben 4 volte a quadrimestre); che avere il compito prima di ricreazione, equivale a perdere in tronco i 10 miseri minuti di intervallo e all'avere la consapevolezza che le focaccine pomodoro e mozzarella del paninaro saranno già esaurite quando scenderemo al piano di sotto per acquistarne una; che ognuno ha la possibilità di organizzare il proprio piano di studi decidendo i giorni degli esami a lui più congeniali, senza l'angoscia provocata da imprevedibili assenze strategiche dei compagni di classe. Però non si può dire che sia poi più facile: il programma di un esame è decisamente più vasto di quello di un'interrogazione, i concetti sono più approfonditi e difficili (trascurando l'esistenzialismo heideggeriano che si studia a filosofia, ovviamente), e il periodo pre-esame è un vero strazio, sembra quello che precede l'esame di maturità, ma miniaturizzato. C'è una terza grande aspettativa, ma questa volta coinvolge solamente lo studentello di provincia che, al primo anno di università, andrà a vivere in un'altra città dove poter proseguire gli studi, anzi a convivere. Lo studentello si immagina le sue future giornate alla stregua di un episodio di "Friends", che termina quasi sempre con Monica, Ross e Chandler sul divanetto del bar di ritrovo, mentre Joey, Phoebe e Rachel portano la pizza da poter mangiare tutti insieme. No, non è affatto così. "I'll be there for you" non sarà la sigla che sentirà la mattina appena sveglio e quando, ormai sul water, si accorgerà che qualcun altro ha finito la carta igienica senza premurarsi di rimpiazzare il rotolo, non si sentiranno le risatine da sit-com di sottofondo, e se ci saranno non proverranno di certo da lui. Lo studentello si troverà di fronte ad una realtà ben diversa dalla culla di bambagia in cui veniva coccolato dai genitori: si troverà a dover auto provvedersi pulendo, facendo la spesa e cucinandosi da solo. Tutto ciò fatto insieme ad altre persone (nel mio caso specifico, altre tre ragazze). Posso assicurarvi, poi, che non è assolutamente vero che tutte le donne tengono all'ordine: c'è chi si diverte a fare la Regina del Condominio, per esempio, delegando agli altri gli onerosi compiti di pulire la cucina o il bagno, che la sottoscritta ha lasciato in condizioni pietose (sigh...). La verità è che la convivenza è, prima di tutto, compromesso: vivendo con un'altra, o con altre persone, bisogna innanzitutto pensare di dover cedere parte dei propri spazi, di dover abbandonare alcune nostre abitudini, accettarne ed acquisirne di nuove. Mai il detto "la libertà di ognuno inizia dove finisce quella degli altri" è stato più azzeccato. La convivenza è anche condivisione: sebbene, soprattutto all'inizio, sia molto difficile, bisogna lasciar correre se è sparito un cucchiaino del nostro prezioso miele di acacia, o se si consuma più caffè del dovuto. In realtà a me non è neanche andata tanto male: non sono circondata né da ragazze/i che vogliono solo divertirsi, né da gente che invade la nostra minuscola abitazione invitando conoscenti a iosa, né da esaltati attivisti politici o del WWF. Ci siamo io, una mia carissima amica, una quasi-laureata con un'anoressia latente e una grande stima di sé, ed una nullafacente che preferisce stare a fumare in cucina piuttosto che studiare. Però, vi dirò, è un'esperienza che aiuta veramente a crescere, costringendomi a badare da sola a me stessa, e a imparare a stare con gli altri in un clima sereno e tranquillo. E poi, suvvia, ci sono anche i momenti piacevoli! Le confidenze in cucina appoggiate al lavello, gli sfoghi in cucina appoggiate alla tovaglia di plastica a fiori che necessita di essere cambiata, quando scoppiamo a ridere convulsamente (in cucina, ovviamente, è il nostro centro nevralgico) e non riusciamo più a fermarci; quando, mercoledì a pranzo, ho preparato questo risotto per me e per altre due delle conviventi, e lo abbiamo gustato insieme, tra una chiacchiera e l'altra, assaporandolo con calma.


Risotto alle fragole

Ingredienti

300 g riso Carnaroli
200 g fragole
2 scalogni
brodo vegetale
parmigiano grattugiato
una noce di burro
olio extravergine di oliva
sale
pepe nero o aceto balsamico

Procedimento

Mettere in una padella dell'olio, poi tritarvi finemente lo scalogno. Porre sul fuoco a fiamma bassa: quando comincerà ad appassire, aggiungere il riso, alzare la fiamma e farlo tostare per un minuto e mezzo circa. Quindi, cominciare ad aggiungere il brodo vegetale caldo. A metà cottura, unire anche le fragole precedentemente lavate e tagliate a piccoli pezzettini; salare e continuare a cuocere, continuando ad unire il brodo mano a mano che cuoce. Quando il riso è cotto, spegnere il fuoco, e mantecare con abbondante parmigiano grattugiato e una nocina di burro. Dopo aver mescolato bene, servire il riso, aggiungendo, a seconda dei gusti, una spolverata di pepe nero o una spruzzatina di aceto balsamico.

sabato 25 aprile 2009

I love shopping (and eating) maître pâtisserie


Da perfetta fashion-victim quale sono, ossessionata da moda, style, trend, riviste patinate, frù-frù, fiocchi e nouvelle vogue, passerei volentieri ore - ma che dico! - pomeriggi interi in negozi di scarpe, abiti, accessori e chincaglierie. A provarmi guardaroba interi, a sfilare su tacchi troppo alti con abiti troppo corti, a provare l'ebbrezza della "modella per un giorno". Nel preciso momento in cui varco la soglia di un negozio di questo tipo, inevitabilmente, non avverto più il tempo che scorre: potrei tranquillamente stare a disquisire con la commessa se il pitonato sta bene col velluto, o se sono tornati di moda i pantaloni a zampa anni '70, senza premurarmi dei minuti che passano inesorabili. Mi sento frivola come Becky Bloomwood della Kinsella: potrei giurare anch'io di aver visto una volta un manichino invitarmi ad entrare dalla vetrina di un negozio! (Aveva addotto delle motivazioni valide, e mi aveva offerto tè e biscotti, come potevo rifiutare?) Solitamente, poi, sono una persona abbastanza oculata: so quello che posso permettermi, e non vado a spendere follie, se non ne vale veramente la pena. Poi arrivano loro: i raptus da shopping. Come in preda ad una febbre che mi prende improvvisa, offuscandomi la mente e rendendomi incapace di ragionare lucidamente, compro. Questa volta però comprare non significa "spendere soldi ragionevolmente per qualcosa di effettivamente utile", ma piuttosto "buttare soldi per qualcosa che non porterai mai" . Sì, a volte capita, soprattutto dopo i periodi di grande stress, o quando si è tristi. È come una liberazione andarsene in giro da newyorkese mancata con buste di ogni tipo tra le mani. Quanto, a volte, mi sembra di assomigliare ad una delle protagoniste di "Sex And the City": vorrei parlare di rossetti sbocconcellando nigiri, ma in realtà me ne vado in giro coi capelli disfatti e sconvolti, il trench aperto al vento, e le ballerine che fanno male ai piedi. Adesso mi affascinano anche i negozi di oggettistica e arredamento, e solo ora riesco a comprendere quando mia madre, in particolar modo quando si trovava in compagnia delle sue amiche, costringeva me, piccola tartina annoiata, a soffermarsi di fronte a svariate vetrine, mentre il mio unico desiderio era quello di un cono alla nocciola e di una corsa al parco, lasciando perdere tutto il resto. Mio padre aveva così trovato in me un'alleata, che perdeva la testa solamente dentro i negozi di cancelleria (evidenziatori, quaderni, penne e matitine colorate mi facevano impazzire quasi più di un set di abiti per bambole firmato Corolle). Insieme aspettavamo mia madre fuori, sbuffando a ritmo alternato. Quando poi venivamo coinvolti, era una tragedia. Trovavo noiosissimo provarmi pile su pile di magliette e pantaloni, e tutt'oggi mio padre fa le storie anche solo se ha da andare a comprare un paio di jeans. E poi c'è stata la svolta, che inevitabilmente prende tutto l'universo femminile: è come se un chip ci fosse stato trapiantato nel cervello alla nascita,e sia programmato per entrare in funzione nella pubertà, rendendo noi donne inclini al comprare, all'abbigliamento, al make-up e ai negozi in generale. Adesso capisco mia madre e perché, per fare i 40 metri del Corso Italia, quando erano aperti i negozi, impiegava minimo un'ora e mezzo. Quindi, nella top list dei miei negozi preferiti, abbiamo al primo posto quelli legati al futile mondo della moda; medaglia d'argento alle librerie; ma chi si aggiudica il terzo posto del podio? La boulangérie, mais oui! Tipico negozio francese, la boulangérie è diversa dai forni italiani: diffonde il suo profumo di pane per tutta la strada, affascina il turista incuriosito con le sue prelibatezze oltralpe. Sì, perché se l'Italia è famosa per pasta e pizza, alla Francia dobbiamo pasta choux, pain au chocolat, croissants e macarons (tanto amore a Pierre Hermé!). Quest'estate, a Parigi, mi sono comprata una baguette friabile e lunghissima solamente per provare la tipica gioia del turista di infilarsela sotto il braccio, nonostante il caldo colossale, e di andare in giro fiera del mio panificato, trasformatosi per l'occasione in un pericolo pubblico (nevessitavo solamente di un basco e di una bicicletta, e poi potevo cambiare nome all'anagrafe in Belle, Amélie, o Tartine Gourmande). È che quelle piccole botteghe che fanno venire l'acquolina in bocca, è come se mi riportassero indietro nel tempo, come se ci fossero sempre state, anche nel Medioevo e nell'Illuminismo. Se penso alla Francia, penso ad una grande boulangérie, in cui Sarkò è un baguettino vecchio di due giorni, la Carlà un bonet travestito da bignet, Depardieu un croissant pieno zeppo di crema, Zidane un panino un po' duretto. Ecco, esistessero anche in Italia negozi così, farei una carta di credito dedicata esclusivamente a pagnotte e dolcetti. O magari, conciliando le cose, che ne dite di un abito fatto di bignè alla panna?

Per suggellare lo sconfinato amore che nutro (è proprio il caso di dirlo) per le boulangérie, vi offro oggi la ricetta del pain aux raisins, presa dal blog Anice&Cannella, e ormai provata, approvata, comprovata e riprovata da tartina & family. Sentito poi come è più musicale di pane con le uvette? Le girelle con crema e uvette rimangono comunque ugualmente deliziose, un must a colazione come a merenda.


Pain aux raisins

Ingredienti

per l'impasto:

g 250 farina Manitoba (preferibilmente marca Lo Conte)
g 250 farina 00 (preferibilmente marca Coop)
g 75 zucchero
g 5 sale
g 75 di strutto (o burro)
g 20 di lievito di birra
170 ml di acqua
170 ml di latte
scorza di arancia o limone
1 tuorlo d'uovo
1 cucchiaino di miele

per decorare:

1 albume
3 cucchiai di acqua
2 cucchiai di zucchero

per farcire:

uvetta 2 o 3 pugnetti
crema pasticcera (ne basta 1/2 dose)

Procedimento

Far sciogliere il lievito nel latte intiepidito, quindi unire anche il resto degli ingredienti. Impastare finché si ottiene un composto che si stacca bene dalle dita, per almeno 15 minuti circa. Porre a lievitare per un'ora e mezzo in luogo tiepido, quindi formare le girelle senza lavorare eccessivamente l'impasto
, stendendo la pasta col mattarello e riducendola ad uno spessore di circa mezzo cm. Dopo averla stesa, versare su tutta la superficie un velo di crema pasticcera, e spargere su di essa l'uvetta precedentemente ammollata in acqua tiepida. Arrotolare la sfoglia fino in fondo, poi tagliare le girelle di uno spessore di circa 1,5/2 cm. Allinearle distanziate sulla placca da forno rivestita da carta da forno, spennellarle con l'albume e lasciarle lievitare ancora per un'ora e mezzo. Infornare a 180° per 15 minuti circa, finché saranno perfettamente dorate.
Per lucidarle, preparare in un pentolino uno sciroppo composto da acqua e zucchero, fatto bollire per qualche minuto; spennellare appena sfornate.

domenica 19 aprile 2009

L'eco dell'eco... logia


Le persone, a volte, tendono a mentire riguardo abitudini comuni, ma piuttosto imbarazzanti, che possano creare disagio nel raccontarle. Nessuno vi rivelerà mai che, per paura della sfortuna, sebbene non sia superstizioso, preferisce non passare sotto una scala mentre cammina; nessuno vi rivelerà che, quando nessuno lo vede, beve dalla bottiglia, almeno non c'è bisogno di lavare il bicchiere; allo stesso modo, nessuno vi rivelerà mai che, quando si trova a casa, ogni qualvolta che si ritira in bagno perché il bifidus actiregularis ha svolto il suo buon dovere da fermento naturale e che ha un po' di tempo da dedicare alla sua naturale regolarità, porta con sé un giornalino, una rivista o un libro, e si dedica alla lettura posizionandoselo sulle cosce, rilassandosi anche. Ovviamente tutti tendono a negare tale consolidata abitudine, anche quando gli ospiti si ritrovano, sulla mensola del bagno, il nuovo numero di Dylan Dog o la Settimana Enigmistica con relativa penna infilata tra un cruciverba e l'altro. Suvvia, non ce ne vergogniamo! Vi confesserò che io, da piccola, mi ritiravo per le mie "attività intestinali private" sempre accompagnata da Topolino. Le storie di quel taccagno di Zio Paperone (me misero, me tapino!), dello sfortunatissimo Paperino (Paperino siamo noi! eccome), di Eta Beta (non sapete che gaudio l'altro giorno a chimica organica scoprire la formula del naftalene, o della naftalina, cibo prediletto dell'alieno disneyano), di Amelia e di Pippo, mi facevano letteralmente impazzire. Ogni mercoledì aspettavo con ansia che mia madre, tornando dal lavoro, mi portasse il prezioso numero, per poi immergermi nella lettura del simpatico giornalino (non sempre avveniva in bagno). Divoravo letteralmente le storie, magari me le rileggevo più volte, tanto ero affascinata dai disegni (pregevoli quelli di Silvia Ziche!), dalle storie, dalle indicazioni gialli con scritto "Più tardi..." o "Intanto, a Topolinia..." Sebbene Topolino, quel ratto saputello dalla fidanzata decisamente antipatica e petulante, non fosse tra i miei personaggi preferiti, il giornalino lo amavo (in realtà anche mia madre leggeva alcune storie, vi dirò). La mia relazione con Topolino è andata avanti fino alla veneranda età di quattordici anni, quando ho deciso che era veramente troppo comprarlo tutte le settimane. In realtà, da quel momento in poi, ho chiuso definitivamente con lui. Una volta mi feci portare un numero da mia mamma, che lavora in una scuola dell'infanzia, per riassaporare il gusto della mia infantile lettura. Purtroppo ho trovato le storie un po' più scadenti, ma forse dipendeva solamente da quel preciso numero, chissà. Rimane il fatto che Topolino è uno delle riviste per bambini (e non!) migliori in circolazione, nonostante le interessanti questioni sollevate da Claudio Bisio, in primis sul perché Pippo e Pluto siano entrambi due bracchi, ma uno si ritrovi a fare i bisognini contro gli alberi e l'altro indossi il gilet e se ne vada in giro in macchina a fare "Yuk-yuk!" La riprova del fatto che sia anche una rivista intelligente è che mercoledì 22 aprile, in occasione dell' Earth Day, trentanovesima giornata dedicata alla Terra, il magazine Disney sarà in edicola con un'edizione a "Impatto Zero". Grazie all'adesione al progetto di LifeGate, il magazine Disney compenserà le emissioni di gas ad effetto serra generate dalla produzione di ogni copia, con la creazione e tutela di nuove foreste in Italia e nel mondo. Impatto Zero ha calcolato che la produzione di ogni copia del settimanale, dal lavoro in redazione, alla stampa, al trasporto, causa la dispersione nell'ambiente di 81.405 chili circa di anidride carbonica. Topolino ha perciò deciso di dare il proprio contributo all'ambiente compensando le emissioni di CO2 piantando oltre 23.800 metri quadrati di nuove foreste in Lombardia, Costarica e Madagascar. Il numero del settimanale sarà per l'occasione "green", dedicato al rispetto dell'ambiente. La stessa copertina vedrà Paperinik (perché nessuno si accorge che è Paperino, perché? Che quella mascherina di 2 cm riesca a renderlo irriconoscibile?) avvolgere la Terra col suo mantello, le storie saranno tutte volte a dare ai lettori un messaggio sul rispetto dell'ambiente. Eh sì, sembra scontato e ripetitivo dirlo, ma non mi stancherò mai abbastanza: il nostro contributo nasce dalle piccole cose. Dal cercare di utilizzare meno shampoo, dal chiudere il rubinetto dell'acqua quando ci si spazzola gli incisivi, dal porre la scatola dei cereali nel contenitore della carta, e la bottiglia di birra vuota in quello del vetro. Troppi allarmi stanno suonando dal pianeta Terra, che cerca di farci capire come ne stiamo abusando. Il più eclatante è, a mio parere, la sempre più probabile estinzione delle api! Com'è possibile che questo storico e leggendario animale, utile al nostro stesso benessere e pregno di significati morali, letterari e religiosi, ci abbandoni a causa della nostra negligenza? Dovremmo avere tutti più rispetto del mondo che ci circonda, per assicurare una vita migliore non solo a noi, ma anche a quelli che verranno dopo di noi. Perché se, come dicono i Puffi, "Madre Natura pensa sempre a noi", anche noi, qualche volta, dovremmo cercare di pensare di più a lei.

Il dessert di oggi vince sempre. Dopo vari tentativi che hanno visto i miei bignet spiaccicarsi miseramente trasformandosi in delle ciaccettine flosce e schifide, impossibili da farcire, ho capito che il forno ventilato non è da abbinare alla cottura dei suddetti dolcetti. a forno statico, invece, vado che è una meraviglia!


Pasta choux

Ingredienti

200 ml acqua
80 g burro
1 presa di sale
120 g farina 00
4 uova

Procedimento

Far sciogliere in un pentolino il burro, insieme al sale e all'acqua. Quando inizia a bollire, togliere dal fuoco ed aggiungere la farina, mescolando molto velocemente con una frusta. A questo punto rimettere il tegame sul fuoco e, a fiamma bassa, mescolare con un cucchiaio di legno finché l'impasto sarà omogeneo e si formerà una "palla" che si stacca dalle pareti e una patina bianca sul fondo. Togliere dal fuoco e lasciar raffreddare. Aggiungere le uova UNO ALLA VOLTA, mescolando bene in modo da amalgamare il tutto.
Con l'aiuto di una sac-à-poche, versare il composto su una teglia rivestita da carta da forno: per le ciambelline, fare almeno 2 giri in cerchio; per gli éclair, formare dei bastoncelli allungati; per il collo dei cigni, formare una "S"; per i bignet, ricordarsi, dopo aver dato loro la classica forma, di abbassare la punta con il dito inumidito con un po' d'acqua, in modo che non si bruci durante la cottura. Se si vuole, spargere sulla pasta choux della granella di nocciole o delle lamelle di mandorle.
Infornare per 25 minuti circa in forno preriscaldato a 200° e STATICO.

Crema pasticcera

Ingredienti

2 tuorli
4 cucchiai colmi di zucchero semolato
2 cucchiai rasi di farina
1 bustina di vanillina
250 ml latte

Procedimento

Porre i tuorli in un tegame, ed amalgamarli bene allo zucchero servendosi di una frusta (a mano o elettrica). Quindi, aggiungere la farina setacciata e la vanillina, non smettendo di mescolare, in modo che non si formino grumi. Unire anche il latte e porre sul fuoco a fiamma bassa: mescolare di continuo con un cucchiaio di legno, e spegnere il fuoco quando la crema avrà raggiunto la consistenza desiderata.
Coprire immediatamente con un foglio di pellicola trasparente e, una volta raffreddata, porre in frigorifero.

composizione:

Farcire le ciambelline spalmando prima uno strato di crema, poi uno di panna montata zuccherata, senza amalgamarli tra loro.
Per la crema chantilly, che non me ne vogliano i puristi, mescolare insieme della crema con una dose uguale di panna montata.
Per i cigni, tagliare a metà orizzontalmente un bignet grande, farcirlo e richiuderlo; sistemare il collo nella cavità che si è formata grazie al taglio.
Idea golosa: alla semplice panna unire della granella di pistacchi o dei pezzettini piccoli di fragola.

sabato 18 aprile 2009

From 1984 to 2009


Ogni qualvolta che, in una conversazione, spunta fuori la parola Grande Fratello, puntualmente tutti i partecipanti alla conversazione si ritraggono schifiti, indignati, e con quell'aria di superiorità alla "io-la-so-più-lunga-di-te!" Che non sia mai! Nessuno, e dico nessuno, guarda tale programma da decerebrati. Ma avete visto quanto sono ignoranti? E la Marcuzzi, quanto si veste male? Che poi l'Activia mi sa funziona poco bene, 'vete visto che fianchi? Che poi secondo me è tutta una farsa, e quelli dentro recitano un copione! Queste le frasi più gettonate a proposito dello scabroso programma. Concordo, certo. Tuttavia, mi chiedo perché questo programma, arrivato ormai alla nona edizione (è più longevo de "La piovra" o di "E.R."!), continui ad ottenere sempre uno share così elevato. In termini spiccioli significa che qualcuno lo guarda. E io sono sicura che, anche quelli che infamano senza ritegno il suddetto programma, almeno una volta, o perché il lunedì sera televisivo non offriva niente di più interessante, o perché sotto sotto sanno anche che numero di scarpe porta Federica, o perché volevano vedere coi loro occhi che esistono ancora specie umane col pollice opponibile poco evolute, si sono ritrovati a guardarlo e a commentarlo. In realtà c'è un motivo di fondo: se la maggior parte degli Italiani è stupida e superficiale, l'altra metà è estremamente... curiosa. Il principio-base del Grande Fratello è proprio questo: sì è davvero tanto curiosi di vedere come si comportano degli individui che non si conoscono costretti a vivere nella stessa casa per un certo periodo di tempo. Si è curiosi di commentare i loro comportamenti, di criticare e di dire la nostra sulle loro decisioni, discussioni, distrazioni. Come se fossimo una qualche divinità che li guarda dall'alto. Se ci fate caso, in questi ultimi anni, la voglia di controllare gli altri e di sapere tutto di tutti si è andata intensificando. Prolificano i giochi cosiddetti di strategia anche al computer, come The Sims, in cui si è artefici della vita umana (sebbene virtuale, ovviamente). Ultimamente si guarda più a cosa fanno gli altri, piuttosto a quello che facciamo noi. Tendiamo a criticare aspramente le azioni del prossimo, mentre magari non ci soffermiamo sul fatto che noi facciamo più o meno le stesse cose, se non di peggio. Se prima, poi, ci si accontentava di sapere che Brad Pitt e Jennifer Aniston si erano lasciati dopo anni di matrimonio, si è passati alla fase in cui è importante anche il perché, il come, il dove, il quando, il che cosa indossava lei quando lui l'ha mollata e si è piazzato con Angelina. Poi, la svolta: non ci interessa quasi più cosa combina lo star system , coi suoi "tira-e-molla", le sue disintossicazioni, i suoi divorzi e le sue trovate pubblicitarie. Adesso ci interessa quasi più sapere cosa sta combinando il vicino di casa, il compagno delle elementari che non vedevamo da quando lui ci aveva tirato quella pallonata in faccia, la moglie del presidente della commissione di calcio di nostro figlio. Testimonianza che quello che sto vanverando non è pura astrazione, è uno dei social network più in voga del momento: Facebook. Questo "Faccialibro" si è lentamente insinuato nella vita di tutti e che cos'è, se non un modo per controllare che cosa fa e come la pensa la gente che ci circonda? Si può sapere se uno è single, se ha una relazione complicata, se da piccolo guardava "Holly e Benji", se il suo profumo preferito è "Moschino Couture". La regola fondamentale di gioco è farsi gli affari degli altri. E basta vedere quanto ha successo per capire che è proprio così, che siamo tutti in un grande Grande Fratello; che ci piaccia o no, volenti o nolenti, ne siamo tutti risucchiati; che se, mentre scorriamo lo sguardo sulle nostre bollette, sentiamo la voce "Il tuo montepremi è sceso di 350 euro", non ci dobbiamo impaurire; che la nostra Marcuzzi è in realtà la portinaia di casa; che prima o poi, andremo tutti in nomination.

Oggi un piatto unico che personalmente adoro, e che sicuramente è di gran lunga migliore delle pagnotte di Marcello. (Nono, ma io mica lo seguo il GiEffe!)


Pollo al curry con riso basmati

Ingredienti

350 g petto di pollo
1 cipolla rossa grande
mezzo bicchiere di latte
1 cucchiaio abbondante di curry
sale
olio exravergine di oliva

250 g riso basmati
una noce di burro

Procedimento

Porre in una casseruola la cipolla tritata finemente e l'olio. Far cuocere a fuoco basso e, quando inizierà ad appassire, unire anche il pollo tagliato a pezzettini, alzando un po' la fiamma. Salare, aggiungere il curry e mescolare. A metà cottura, aggiungere anche il latte, in modo che il pollo rimanga morbido. Mescolare nuovamente e terminare la cottura (in tutto 20 minuti circa).

Lessare il riso basmati, scolarlo e unirvi il burro, facendolo sciogliere.

Impiattare servendo prima il riso, poi adagiandovi sopra il pollo col relativo sughino di condimento.

mercoledì 15 aprile 2009

Di consuetudine mediatica


C'è chi, per decretare avvenuto l'inevitabile cambio di stagione, si affida alle umane convenzioni, assumendo il 21 marzo come l'equinozio di primavera, il 21 giugno come il solstizio d'estate, il 23 settembre come l'equinozio d'autunno, e infine il 21 dicembre come il solstizio d'inverno (ovviamente questo ipotetico "chi" si trova a vivere nell'emisfero boreale). C'è invece chi diffida delle rigide e ferree regole imposte dagli uomini alla natura, e si affida alle variazioni climatiche e del paesaggio: lo spuntare delle violette e delle margheritine in giardino segna l'arrivo della primavera, il cielo azzurro intenso con un sole che spacca le pietre l'inizio dell'estate, i colori caldi delle foglie cadute e il profumo delle caldarroste il principio dell'autunno, il cappotto pesante e la brina la mattina quello dell'inverno. Poiché ognuno è libero di fare quello che vuole, non giudicherò né l'uno né l'altro metodo. Questo non mi vieta comunque di avanzare un "però". Però c'è da dire che entrambi i metodi sono fallaci: le date scelte per convenzione sono fisse, e noi sappiamo bene che la natura segue il suo corso, non adeguandosi certamente ad esse; c'è anche da dire, poi, che a volte la natura inganna, e se un giorno siamo in maniche corte, quello successivo potremmo benissimo essere avvolti da una mega sciarpa senza farsi troppi problemi. Non per fare la maestrina, ma vi dico invece qual è il mio metodo personale, per riconoscere a colpo sicuro l'arrivo della brutta stagione e l'arrivo della bella stagione. Il segreto è il telegiornale. Ebbene sì, a qualcosa serve: mica solo a tenerci informati prima di tutto sulle nuove tecniche anticellulite e sul perchè Jude Law non sta più con la tata dei suoi figli, o a inscenare servizi drammatici e politicamente orientati, piuttosto che oggettivi e imparziali! Puntuale come un orologio, verso ottobre inoltrato, arriva il servizio sul maltempo. Ogni anno, questo si ripete sempre uguale, quasi potremmo anticipare le parole noi, al telecronista. Le scene si susseguono con la medesima e stancante ciclicità: le strade allagate (spia del fatto, piuttosto che dell'arrivo della stagione delle piogge, che l'Italia è un Paese male organizzato anche per quanto riguarda le infrastrutture, i lavori e le precauzioni da prendere per risolvere determinate situazioni), un paesaggio campestre (sembra quasi che il tiggì si rivolga all'Italia rurale dell'Ottocento), l'inquadratura su Venezia (che alla minima pioggia si allaga!). Ecco, fateci caso: quando mandano in onda questo Servizio, la stagione invernale arriva, puntuale come un orologio. Adesso, però, è il momento del Servizio che segna l'arrivo della stagione primaverile ed estiva: il servizio sulla prova-costume. Questa trovata geniale non solo è frustrante, perché ci fa sentire in colpa quando mettiamo in bocca un pezzo di biscotto, o cediamo alla tentazione di un cioccolatino, ma provoca anche l'ansia nelle povere donne di tutta Italia. All'ora di pranzo, mentre stai per infilare in bocca una bella forchettata di pastasciutta, la voce squillante della telecronista, che sicuramente sarà seguita da un personal trainer e riceverà la sua puntura di botulino quotidiana al solo schioccare delle dita, interrompe il tuo pasto, insinuandosi nel tuo cervello con l'imperativo morale e categorico di cercare di mantenersi in forma in tempo per sfoggiare il bikini nuovo di Calzedonia al mare o alla piscina comunale. La forchetta viene riposta cautamente sul piatto, si opta per una mela. Niente di più sbagliato. Leggendo sul Venerdì di Repubblica un'intervista a Franco Contaldo, ordinario di Medicina interna e di Fisiologia della nutrizione all'Università Federico II di Napoli, ho scoperto innanzitutto che la primavera è una stagione che segna anche un "risveglio biologico", per cui è il momento ideale per perdere qualche chilo di troppo. Il tiggì almeno in questo ci azzecca, anche se l'effetto scatenato dal servizio, è dei peggiori: oltretutto, solitamente questa trovata mediatica sconvolge o chi è troppo magro e invece di una dieta dimagrante avrebbe bisogno di una ingrassante, o chi, di chili da perdere, ne ha veramente troppi, e non riuscirà mai a farcela in soli due mesi, se non sottoponendosi a diete stupide e pericolose. Contaldo, infatti, continua consigliando di seguire diete che diano un sufficiente apporto energetico, e di non saltare assolutamente i tre pasti giornalieri che, testuali parole, devono includere una ricca colazione, fatta di latte, corn flakes o fette biscottate con marmellata naturale, yogurt, spremuta di arance o frutta fresca, un pranzo fatto di pasta, riso o di un secondo piatto con tanto di pane e verdure, e una cena magari più leggera, da non consumare troppo tardi.

In barba al telegiornale che vi pianterà davanti natiche sode e pance piatte, scatenando in voi i sensi di colpa, vi offro una torta davvero buona, ideale in ogni momento della giornata, ma soprattutto, cosa da non sottovalutare dopo tutte queste considerazioni, estremamente leggera.


Torta soffice di fragole

Ingredienti
350 g fragole
200 g farina 00
3 uova
150 g zucchero semolato
50 g latte
30 g olio di semi di arachide
mezza bustina di lievito per dolci

Procedimento

Servendosi delle fruste elettriche, montare le uova intere con lo zucchero. Incorporare la farina setacciata col lievito, aggiungere poi olio e latte. Versare metà impasto in una tortiera a cerniera dal diametro di 25-26 cm; aggiungere metà fragole dimezzate della quantità indicata, quindi coprire con il resto dell'impasto. Disporre sopra, a corona, le fragole rimanenti. Infornare in forno preriscaldato a 180° per 40 minuti circa. Quando si sarà raffreddata, spolverizzare di zucchero a velo.

lunedì 13 aprile 2009

I principi e le principesse della casa


Se avessi il compito di fare una classifica delle frasi più pronunciate dalle madri di tutto il mondo, prima ancora di "Finisci i broccoli!" e anche di "A casa facciamo i conti", inserirei sicuramente "Metti in ordine...!" I puntolini, in questo caso, possono stare per molte cose, a seconda della situazione: può essere "la stanza", come può essere "la stalla del pony che ti abbiamo regalato per il tuo compleanno" se si tratta di una famiglia particolarmente facoltosa, oppure può essere "l'armadio dove tieni le scarpe". Colpita e affondata. Tale frase mi è stata ripetuta con diverse intonazioni per un po' di tempo: si parte con un tono di voce supplichevole, si vira verso un tono di voce alterato, e si arriva infine al tono di voce veramente ma veramente indignato e arrabbiato, da madre che si vuole imporre sulla propria figlia negligente, che trascura i numerosi imperativi categorici della genitrice. La prima volta ho sentito queste parole nel periodo post-esame, quando ero in casa a non fare niente, cucinare a parte. Uscita esaurita dal terribile stress, avevo bisogno di riposo. C'è da dire che io ho davvero tantissime scarpe, e che il mio armadio era in condizioni pietose: ballerine gialle nelle scarpe delle decolletée di velluto nero col fiocco, scarponcini su tacco 10 lucido color salmone, tronchetti rocchèrroll che non si trovavano. Per riprendersi da un intenso periodo di studio, non era certo il massimo mettersi ad ordinare questo abominio, per cui ho preferito rimandare alla settimana successiva. Molti di noi, me compresa, tendono a rimandare le cose che non gradiscono fare, che sia portar fuori il cane per il bisognino in pieno inverno, che sia telefonare alla zia della mamma che abita a Compiobbi e che non si vede mai, sapendo di trascorrere 2 ore buone attaccato al cordless. Il brutto è che, con questa tendenza, non si riesce mai a portare a termine i nostri doveri: il cane lascerà un poco profumato ricordino sul tappeto del salotto, la zia compiobbese si dimenticherà di voi e non manderà più i soldi a Natale. Ovviamente, è quello che è successo con l'Armadio delle Scarpe. Ogni week-end, mia madre, santa donna, mi ha ripetuto di dover riordinare quell'angolo di camera, sennò ci sarebbero state ripercussioni personali. Mi vergogno un po' ad ammetterlo, ma non l'ho mai fatto. La verità è questa: in tutta sincerità, elemento imprescindibile per una relazione stabile, i figli unici sono viziati. No, non sfatiamo questo mito! I figli unici sono per forza viziati, chi più e chi meno. Il fatto è che non ci sarà mai un fratello o una sorella da considerare, con cui litigare, a cui rubare i vestiti, con cui trascorrere una bella serata semplicemente guardando un film e sgranocchiando patatine, ricordandosi poi di leccarsi le dita. Quindi, volenti o nolenti, i genitori tendono a viziare le proprie perle solitarie, i propri numeri primi. Non c'è un altro figlio da considerare, tutto l'amore si riversa su una sola persona, così come le attenzioni e le premure. Che a volte diventano eccessive, che a volte tendono a racchiudere il pupillo in un batuffolo di bambagia in cui questo può tranquillamente crescere, agiato, felice e inconsapevole. Io sto bene così, da piccola dichiarai espressamente a mia madre "Ho guardato bene nella pancia, mamma... ero sola!", mettendo in chiaro le mie intenzioni di essere la Sola e Insostituibile nella mia famiglia. Però non lo nascondo, ne sono consapevole di essere un po'... viziata. Ma sapete quando me ne sono resa veramente conto? Quando due giorni fa, per cercare i miei sandali viola col tacco di sughero, ho aperto le ante dell'armadio e, indovinate un po'?, tutto era perfettamente in ordine, le scatole impilate con cura e le relative scarpe dentro.

Oggi una ricetta più facile e veloce da preparare di quanto sembri. Da sempre sono stata attirata, nel banco frigo del supermercato, dagli gnocchetti tirolesi. Poi mi sono evoluta: ho scoperto che si chiamano spätzle e che sono originari della Germania meridionale. Il passo successivo è stato farseli da sola, ed è inutile dire che sono mille volte meglio di quelli acquistati.


Spätzle verdi alla crema di pomodoro

Ingredienti

per gli spätzle

2 hg spinaci
olio extravergine di oliva
1 spicchio d'aglio
3 uova
3 hg farina 00
2 dl acqua
1 dl latte
20 g parmigiano grattugiato
1 presa di sale
noce moscata

per il condimento

2 scalogni
5 pomodori rossi a grappolo
1 mazzetto di basilico
6 cucchiai di olio extravergine di oliva
1 puntina di pesto di peperoncini siciliano, oppure del peperoncino secco
sale

Procedimento

per gli spätzle:
Lessare le spinaci o cuocerle al vapore, quindi saltarle in padella in un po' d'olio precedentemente insaporito con uno spicchio d'aglio. Passarle col passaverdure a fori piccoli. In una ciotola sbattere le uova, unire le spinaci, il parmigiano, il sale e la farina; infine, poco alla volta, l'acqua ed il latte intiepiditi. Il composto deve risultare abbastanza compatto e morbido (quasi colloso), in modo che possa scendere dall'apposito utensile che serve per fare gli gnocchetti: andrà bene se, lasciato cadere con una forchetta, cadrà velocemente rimanendo un blocco unico. Far riposare l'impasto per una mezz'ora. Intanto, mettere a bollire una pentola d'acqua e preparare il condimento.

per il condimento:
Far appassire a fuoco basso gli scalogni nell'olio, unire i pomodori lavati, pelati, privati dei semi e tagliati a pezzetti, poi il basilico ed il peperoncino. Salare, chiudere la padella col coperchio e cuocere per 5 minuti circa a fuoco vivace. Passare con il passaverdure e versare il sughetto in una padella saltapasta.

Quando l'acqua della pentola raggiunge il bollore, salarla e preparare gli spätzle: servendosi di un ramaiolo, riempire per metà l'apposito utensile, ricordandosi di non eseguire mai questa operazione sopra la pentola, perché altrimenti il vapore cuocerebbe l'impasto, impedendogli così di fuoriuscire dai fori. Porlo adesso sopra la pentola, e passare lentamente la vaschetta sui fori. Quando gli gnocchetti vengono a galla, raccoglierli con una schiumarola, e trasferirli sulla crema di pomodoro. Ripetere l'operazione fino al termine dell'impasto. Se la crema di pomodoro risulta troppo densa, unire un po' di acqua di cottura. Amalgamare bene gli spätzle al condimento, aggiungere del parmigiano grattugiato e servire caldi.

sabato 11 aprile 2009

Rebirth


Per un bambino non esiste cosa più gioiosa dello scartare un regalo. Ovviamente, se il regalo contiene una Bratz nuova fiammante con tanto di extension e barboncino prêt-à-porter, la bambina sarà ancora più contenta (lo stesso vale per il bambino nel momento in cui, sotto la carta, trova un Nintendo). Rimane comunque il fatto che il bambino sia affascinato dall'atto in sé, proprio dallo sciogliere il fiocco, dallo scartare il regalo, sbranando la carta senza rispetto alcuno e svelare l'arcano mistero, scoprendo cosa si cela dentro al pacchetto. L'ansia dell'attesa, dell'incognito, affascina il bambino più di chiunque altro. La sua curiosità è infinita, vuole sapere che cosa gli spetta. Il bello è che, al contrario degli adulti, i bambini si accontentano veramente di ogni regalo, a meno che non si tratti di vestiario o di biancheria. Se ci venisse regalato un cactus gonfiabile di plastica, sarebbe difficile per noi nascondere il nostro disappunto, pensando magari a quanto stonerebbe nel nostro piccolo appartamento, accanto alla fine porcellana cinese del secolo scorso. Il bambino no, troverebbe quel cactus la cosa più bella al mondo: forse perché la fantasia gli consentirebbe di trasformare l'oggetto in un fantastico gingillo per i suoi giochi; forse perché si accorgerebbe che qualcuno l'ha pensato, che quel cactus è proprio suo da questo momento in poi. Pensandoci bene, altra cosa che riesce sempre a provocare grandi quantità di entusiasmo nei bambini, sono i dolci. Chi non ha mai sognato di avere la possibilità di ingurgitare tutti i dolci che vuole con la benedizione della mamma? Kinder e Ferrero lo sanno bene, e hanno fondato un impero sulla golosità sì dei grandi, ma soprattutto dei bambini. A questo punto vorrei farvi riflettere su quanto la festa della Pasqua sia cosa gradita ad ogni bambino. Con questa, si conciliano due dei suoi più grandi desideri: non solo c'è da scartare un uovo ed aprirlo per carpirne la sorpresa racchiusa all'interno, ma l'uovo è di... cioccolato. Il bimbo può così giocare con la sorpresa (le uova di Pasqua italiane virano in particolar modo a braccialettini e mini-scacchiere di calamita), mentre sgranocchia beato il suo pezzo di cioccolato, che si scioglie in bocca, sulle piccole dita e sul tappeto. Ogni festa, ormai, si sta trasformando in un atto meramente consumistico, senza alcun valore religioso o, semplicemente, umano. Quest'anno, invece, voglio renderlo tale, soprattutto dopo gli ultimi avvenimenti. Per me la Pasqua ha voluto sempre dire "parenti". Però no, dopo questa mia affermazione non immaginatevi un noiosissimo pranzo con tantissima gente che ti tormenta le guance, dispensa pizzicotti e cantilena "Ma quanto sei cresciuuuuta!" Io di parenti stretti ne ho davvero pochi: una nonna, uno zio e una zia, sua moglie. Si potrebbero contare sulla punta delle dita di un alieno, per dire (l'alieno potrebbe benissimo avere 3 dita, per esempio). Per me vale il detto: "Natale con chi vuoi e Pasqua con chi vuoi (sempre con i tuoi)". Quindi quest'anno attendo la Pasqua anche per questo motivo: rivederli e passare del tempo insieme. Solo adesso che sono più grande ho instaurato un rapporto migliore e più maturo con loro, ed apprezzo quei rari momenti in cui stiamo insieme, visto che abitiamo piuttosto lontani l'uno dall'altro. E poi, Pasqua vuol dire rinascita. Lo stesso simbolo dell'uovo significa vita. E allora, lo prendo come momento di Rinascita, di nuove prospettive, di un nuovo atteggiamento verso gli altri. Sì, di cambiamento. Un po' tutta la stagione primaverile significa questo: e allora, facciamo un po' di pulizie di primavera, non solo in casa, ma anche dentro di noi.

Vado contro la corrente seguita dalla maggior parte dei blog che offrono, per questa festività, le loro squisite pastiere, per darvi modo di assaporare una torta buonissima, tipicamente toscana e tipicamente pasquale. Di quelle che però non vengono mai a noia, e che si possono mangiare in ogni momento dell'anno senza troppi problemi.

Auguri di buona Pasqua!


Torta Mantovana

Ingredienti

170 g farina 00
170 g zucchero
135 g burro
3 tuorli + 1 uovo
8 g lievito vanigliato per dolci
la buccia grattugiata di un limone
2 cucchiai di latte

50 g mandorle
50 g zucchero

Procedimento

Servendosi delle fruste elettriche, montare le uova con lo zucchero per circa 20 minuti. Unire la farina setacciata al lievito e la buccia del limone poco per volta, cercando di non smontare il composto. Infine, aggiungere anche il burro precedentemente sciolto a bagnomaria e i cucchiai di latte, amalgamando bene. Imburrare una teglia del diametro di 25 cm e cospargerla di zucchero, quindi versarvi l'impasto. Preparare un composto con lo zucchero rimanente e le mandorle tritate a pezzettoni, e cospargerlo sull'impasto. Cuocere in forno preriscaldato a 180° per 35-40 minuti circa.


Piesse: per il pulcino e il coniglio della foto, ho utilizzato l'impasto della Mantovana senza le mandorle e lo zucchero; le decorazioni sono di cioccolato fondente (rigorosamente dell'uovo. Sì, ho 19 anni e allora? Ahah). La piccola tortina, invece, è una Mantovana miniaturizzata, fatta negli stampini da muffins.

venerdì 10 aprile 2009

Colpo di Grazia


Un saggio una volta disse che "ci si rende conto di quanto si tiene realmente a qualcosa, solo nel momento in cui la si perde". Doveva essere proprio saggio, perché questa affermazione è estremamente veritiera. Mai avrei pensato di essere così affezionata al mio orecchino vintage con la clip, finché non l'ho perso mentre mi risistemavo la fascia per i capelli andando a lezione, perché il vento soffiava così forte che mi facevano male le orecchie, e avevo bisogno di coprirle in qualche modo. Non avrei immaginato neanche di tenere tanto al mio bicchiere di vetro da colazione, senonché mia madre lo ha rotto per sbaglio, e io ho avvertito la mancanza di quel vetro spesso a contatto delle labbra di prima mattina. Lo stesso vale per quando vado a tagliarmi i capelli: ogni volta che la parrucchiera entra di forbice nella mia chioma, sento che sta portando via qualcosa che mi appartiene, e che non mi potrà essere restituito. Queste piccole situazioni di vita vissuta, quanto mi sembrano stupide ripensandoci adesso, dopo la notizia del terribile terremoto che ha colpito l'Abruzzo, con il numero di morti che lievita ogni giorno che passa, il numero dei dispersi pure, il numero dei feriti anche. Il principio della perdita è lo stesso, ma cosa sono quelle quisquilie da bambina viziata al confronto della perdita dei propri cari, della propria casa, della vita trascorsa fino ad ora in un paese, in una città che sai non essere più quella di prima? Se già l'Italia, per un motivo o per un altro, si trovava prostrata e in ginocchio, ecco che questa disgrazia le ha inflitto il colpo mortale. Le scosse ancora non sono terminate, sono previsti addirittura temporali e scrosci d'acqua sulle zone terremotate: sembra quasi un incubo a lungo termine. E noi, io, che abbiamo la nostra casa, la nostra connessione, la nostra stupida televisione, il congelatore e la macchina del caffè ancora funzionanti, non ci rendiamo veramente conto di cosa stiano provando gli abruzzesi. Sullo schermo collegato al tubo catodico si susseguono le immagini di telegiornali che pensano esclusivamente allo share, Presidenti del Consiglio che si infilano cappellini da vigile del fuoco autopubblicizzandosi alla massa degli italiani, Presidenti della Repubblica che rendono omaggio alle salme, la Marcuzzi che dice che "tutti gli Italiani sono provati in questo momento", e il collegamento alla casa del Grande Fratello cinque secondi dopo, in cui otto coglioni scherzano e ridono incuranti tra tette di silicone e pochi neuroni. Non ci immaginiamo neppure cosa sia aver perso tutto, e starsene lì, in bilico, senza sapere che futuro ci aspetta, dopo che si è irrimediabilmente perso il proprio passato. Sarò sincera: io stessa lunedì, dopo aver espresso poche parole di commiato sulla vicenda, ho alzato il volume di una canzone alla radio mentre andavo alla stazione, per canticchiarla meglio, probabilmente per scacciare via la notizia appena appresa, probabilmente per non pensarci neanche, perché ciò avrebbe voluto dire stare male. Sapete quando mi sono sentita totalmente coinvolta? Stamattina, quando hanno dichiarato che "il sisma sembra procedere verso nord". Verso nord, verso la Toscana, verso me. Purtroppo ci si rende conto della gravità dei problemi solamente quando questi ci coinvolgono in prima persona, ed è stato questo a farmi riflettere con maggiore consapevolezza. Che vorrebbe dire perdere tutto così, dopo una violenta scarica di terremoto? Dopo che le forze della natura si sono accanite contro di te. E perché poi? Che gli abruzzesi abbiano fatto qualcosa di male? Non penso proprio. E allora, l'unica cosa che rimane da fare, è quella di stare loro vicini, che sia con una donazione, che sia con un sms (al 48580), che sia con un pensiero che ci porti a capire quanto siamo fortunati delle cose che ci circondano.

Per questa Vigilia, un piatto a base di pesce, sperando che la Pasqua di quest'anno non riservi più brutte sorprese all'interno dell'uovo.


Polpo in guazzetto

Ingredienti (per 4 persone)

2 kg polpo
4 pomodori maturi
1 cipolla
1 mazzetto di prezzemolo
1 spicchio d'aglio
sale
olio extra vergine d'oliva
brodo vegetale o di pesce
(peperoncino)

Procedimento

Portare ad ebollizione una pentola d'acqua salata. Pulire il polpo e metterlo a bollire, coperto, per una mezz'ora. Trascorso questo tempo, spegnere il fuoco, lasciare raffreddare il polpo dentro la pentola coperta. Estrarre il polpo e passare i tentacoli tra le dita per toglierne la membrana violacea, quindi tagliarlo a pezzetti.

Tritare la cipolla in una padella capiente (come quella che utilizzate per far saltare la pastasciutta), unire 5 cucchiai circa di olio e farla appassire a fuoco basso. Aggiungere i pomodori pelati, privati dei semi e tagliati a dadini, ricordandosi di salare il tutto. Quando il pomodoro sarà diventato morbido, aggiungere del brodo vegetale o, meglio ancora, del brodo di pesce; unire quindi il polpo precedentemente tagliato e far cuocere per circa 20 minuti con il coperchio. Verso la fine della cottura aggiungere, se piace, del peperoncino. Al termine di essa unire un trito di prezzemolo e aglio.

Tostare delle fette di pane e disporle sul fondo del piatto da portata; quindi, adagiarvi sopra il polpo col relativo sughetto.

domenica 5 aprile 2009

La domenica... che pizza!


Sunday always comes too late (La domenica arriva sempre troppo tardi), cantano i The Cure nella celebre canzone "Friday, I'm in love". Io, non per fare l'alternativa, ma credo invece che la domenica sia un giorno che arrivi in fretta, troppo in fretta. Ora non voglio dilungarmi in un possibile monologo alquanto noioso e fine a se stesso sul tempo che passa, noi che invecchiamo e il mondo che va allo scatafascio. Insomma, sarebbe banale e anche piuttosto deprimente, non trovate? Piuttosto, vorrei soffermarmi proprio su questo noto giorno di festa: la Domenica. Io comprendo che questo è un giorno tanto atteso: i lavoratori non vedono l'ora di dormire un po' di più e passare del tempo con la propria famiglia, o a guardare la tivvì spaparanzati sul divano (a meno che non si stia parlando di fornai, o di asfaltatori dell'Aurelia); gli studenti non vedono l'ora di dormire un po' di più (sì, anche loro, anzi parecchio di più) e di fare ciò che più piace loro (a meno che non si stia parlando di studenti diligenti: loro, in questo caso, passeranno un'intera giornata a studiare anziché mezza - rientro nella categoria); le anziane signore del paese non vedono l'ora di andare a messa e di preparare le lasagne al forno, il pollo arrosto con le patate e la torta di mele per i nipotini; gli anziani signori del paese non vedono l'ora di mangiare le lasagne al forno, il pollo arrosto con le patate, la torta di mele e di rifugiarsi immediatamente al circolo, dove poter seguire le partite di campionato e improvvisare emozionanti tornei di briscola. Però devo anche dare sfogo alla mia ormai risaputa vena polemica. La domenica è, in tutto e per tutto, un giorno estremamente noioso. Quasi preferisco il giovedì, con le sue due ore di fisica e poi di chimica organica di filato, senza pause, che ucciderebbero anche Highlander. La domenica è il giorno più rompiballe per antonomasia. Se i compilatori dei vocabolari fossero persone oneste, descriverebbero così la voce "domenica": giorno che segue il sabato, dichiara finito il weekend. Già questo potrebbe essere uno dei motivi per detestarlo, finita la domenica, finito tutto. Lo diceva anche Leopardi nel "Sabato del villaggio" che le persone aspettano con ansia e desiderio e aspettativa la domenica, che poi passa velocemente, e cade ogni illusione. Ma proseguiamo. Giornata che la maggior parte della gente di età compresa tra i 20 e i 90 anni trascina con estrema lentezza. Sì, la domenica è una giornata troppo lenta. Si dorme di più, ci si sveglia, si deve decidere il da farsi. Il più delle volte, esperienza personale, sono così tante le cose che vorremmo fare, che finiamo invece a guardare a ruota episodi del telefilm preferito (ehm...), a fare i baffi al personaggio che si trova sulla copertina della Settimana Enigmistica, a stare davanti al computer in giro per la blogsfera e a sollazzarsi con le applicazioni di Facebook. Soprattutto nella bella stagione, le famiglie italiane approfittano di questa giornata per andare a fare scampagnate al mare, in montagna, oppure per le città della regione. Un'altra verità. Il babbo che vorrebbe solo stare a seguire Inter-Roma e la Ventura su RaiDue, la mamma che invece organizza felici gite con gli amici e i rispettivi figli. Da piccola, la domenica ero sempre in giro per vari tour italiani: c'è da dire che non mi è mancato un approccio con la cultura fin dalla tenera infanzia. Mostre, pinacoteche, castelli, chiese e palazzi: giravo più da piccola che ora. Traduzione: ero più attiva nelle domeniche della mia infanzia che in quelle di adesso. Quando giocavo a pallavolo la domenica era il momento delle partite: adrenalina, ansia da prestazione, voglia di starsene a far niente invece di essere trascinati in giro per le palestre toscane. Quando andavo al liceo, la domenica era la giornata dello studio intenso e del ripasso: le ore scorrevano e la mia testa era sempre più china sui libri; lo stesso accade nel periodo d'esame, ma a quel punto ogni giorno è domenica. Adesso però è giunto il momento della stoccata finale. Precede il lunedì. Esatto! Precede il lunedì! Ecco il motivo fondante del mio odio verso questa giornata! Il lunedì è il suggello della fatica: inizia una nuova settimana di intenso impegno, di stress, di gioie, di fatiche, di sollazzi, di stanchezza, di illusioni, delusioni, previsioni ed emozioni. Ma basta solamente iniziare e poi, senza neanche accorgersene, è già domenica.

Come suggello del post, vi offro la mitica ricetta della pizza di mia mamma. Buonissima, leggera, si fa in poco tempo: dopo averla assaggiata, ho rinnegato tutte le pizze surgelate e/o di pizzeria. In casa nostra è un must che viene consumato, come una specie di rito, ogni domenica sera, rendendo la fine della giornata alquanto piacevole.

Buon inizio settimana a tutti!


Pizza

Ingredienti per 3 pizze di 32 cm di diametro

per l'impasto:
500 g circa farina 00
300 ml acqua
100 ml latte
25 g lievito di birra

per il condimento:
9 pomodori rossi a grappolo
300 g Galbanino (ha una resa migliore della mozzarella, perché non inumidisce troppo la pizza)
olio extra vergine d'oliva
sale
origano
rucola a piacere
(50 g salamino piccante, funghetti, carciofini...)

Procedimento

Sciogliere il lievito di birra nell'acqua tiepida unita al latte. Versare in una ciotola 300 g circa di farina, e unire il liquido. Aggiungere altra farina, finché non è possibile lavorare l'impasto con le mani. Trasferire la pasta sulla spianatoia e lavorarla bene per 10 minuti circa, aggiungendo via via dell'ulteriore farina, fino a che non si attacchi più né alle mani, né alla spianatoia: la pasta deve risultare morbida ed elastica, quindi la quantità di farina suggerita negli Ingredienti è solo indicativa. Stendere la pasta nelle 3 teglie rotonde rivestite da carta da forno, e lasciarla lievitare per circa due ore e mezzo in un luogo chiuso e tiepido (perfetto il forno chiuso, gli sportelli della cucina...).

Spellare i pomodori, privarli dei semi, e tagliare la polpa a dadini. Aggiungervi sale, origano e poco olio. Può darsi che, così facendo, i pomodori producano acqua, che è bene eliminare prima di disporli sull'impasto.

Per la cottura, si può procedere in due modi, a seconda del forno posseduto:

1) se disponete del piatto apposito per la cottura crisp del forno a microonde multifunzionale, porre direttamente la pasta nel piatto leggermente unto con olio, dopo che questa è lievitata. Unire il pomodoro e cuocere con la suddetta funzione per 4 minuti; a questo punto, unire il Galbanino tagliato a rondelle sottili e le eventuali aggiunte, continuando poi la cottura per altri 2 minuti.

2) se avete il forno normale, stendere la pasta sulla carta da forno; dopo la lievitazione, farla precuocere in forno preriscaldato a 225° per 5 minuti da una parte, in seguito per 3 minuti dall'altra. Disporre il pomodoro, il Galbanino e le eventuali aggiunte e far cuocere per 4 minuti sempre in forno preriscaldato a 225°.

sabato 4 aprile 2009

Dulcis in fundo


Molti termini della lingua italiana derivano dal greco, molti dal latino. Non è assolutamente corretto chiamarle "lingue morte": vivono ancora più di quanto si immagini. Quando parliamo di democrazia, magari, pensiamo solamente che non riusciremo mai ad avere/vedere un governo veramente democratico, senza minimamente riflettere sul fatto che, tale parola, è un composto greco: significa "potere del popolo" (proprio due giorni fa un concorrente del Milionario è caduto miseramente su questa domanda, quindi vi conviene leggere, o potreste perdere un patrimonio di 150.000 euro). Ciò che è "edibile" è "ciò che si può mangiare" proprio grazie a quei Guitti Greci (la poco da palcoscenico Elisa Odoardi, una volta fece una magra figura alla "Prova del Cuoco" chiedendo espressamente il significato del termine; manco stesse conducendo un programma sull'ippica acrobatica, dico io). I grecisti non confonderanno mai l'astronomia con la lettura dell'oroscopo, proprio perché sanno bene, dall'etimologia del termine, che la prima è la scienza che studia gli astri, la seconda è invece un modo per gabbare chi crede alle superstizioni predicendogli il futuro e intascandosi i soldi. Per non parlare poi della medicina, lì è tutto un grecismo, tra sistole, elettrocardiogramma e paracetamolo. Da non sottovalutare anche il contributo che quei Lungimiranti Latini hanno dato alla lingua che parliamo oggi. Quando posizioniamo il Bambin Gesù vicino alla mangiatoia e ci riteniamo molto soddisfatti per il nostro presepe che quest'anno è anche dotato di fiumiciattolo scorrevole, neanche andiamo a pensare che la parola "presepe" deriva dal latino e significa "recinto chiuso". Se pigiamo sulla tastiera il tasto che si trova accanto al punto, vediamo comparire sullo schermo un segno di punteggiatura come tanti altri: mai andremmo a pensare sul fatto che quel simbolo, la virgola, ha un nome antico, dal momento che in latino la virgula era una "piccola verga" o un "bastoncino", qualcosa di ricurvo, per capirsi. Per rimanere in tema mangereccio, uva deriva invece dal verbo "uvère", che vuol dire "essere umido": l'uva, che i romani gustavano distesi su quegli accoglienti triclini, è infatti il frutto più sugoso e umido per eccellenza. Un'altra parola di uso corrente è "abitudine". Questa deriva dal latino "habitudo", e significa "struttura fisica" o "morale". Ecco, ognuno di noi ha delle abitudini di vita, qualcosa che facciamo ripetutamente, che ci piaccia o no. Si può avere l'abitudine, alquanto discutibile, di portare fuori il cane alle quattro di notte, per esempio (col rischio di venir rapinato o di addormentarsi al primo palo della luce che si incontra). Oppure si potrebbe avere l'abitudine di ruttare dopo i pasti, e questa sarebbe una cattiva abitudine qui in Italia perché simbolo di pura maleducazione, ma sarebbe una buona, anzi doverosa abitudine in Cina, dove significa di aver gradito il cibo (con tanti complimenti allo chef). L'abitudine è comunque qualcosa che non abbiamo alla nascita, ossia non siamo predestinati ad ordinare sempre il ketchup a parte con le patatine, mettiamo caso. Le abitudini nascono dall'esperienza e, in buona parte, dall'educazione e da some siamo stati ABITUATI a vivere in famiglia: provate a tenere a lungo il ciuccio a vostro figlio, e magari questo si ritroverà a trent'anni a succhiarsi il pollice quando si trova nelle situazioni più difficili. Oltretutto è davvero difficile scollarsi di dosso le abitudini apprese, che fanno ormai parte del nostro modo di vivere: a volte è però necessario cercare di togliersi quelle malsane, anche se occorre del sacrificio. Un'abitudine che mi contraddistingue, oltre a quella maniacale di volermi apparecchiare la sera per la mattina (non immaginate che goduria svegliarsi tutti assonnati e trovare la tovaglina con sopra appoggiato ordinatamente tutto il necessario, mettersi a tavola e gustare la colazione!), è quella di prendere il caffè nero senza zucchero, nel seguente ordine: una bella tazza la mattina, una e mezza dopo pranzo, e il decaffeinato la sera. Proprio non potrei rinunciarci. Un grazie infinite al caro vecchio Cristoforo Colombo che ci ha dotati di questa prelibatezza, diventata poi anche simbolo di aggregazione sociale (basti pensare ai caffè ottocenteschi, dove ci si riuniva per parlare di filosofia o per cospirare contro il re e la regina) e di sveglia automatica per l'organismo (anche se, vi dirò, il sonno a me non passa dopo una tazzina di caffè). Del caffè sono state fatte mille varianti, mille combinazioni: si può bere ghiacciato, al vetro, in tazza, con la schiuma, macchiato, col caramello, col cioccolato, lungo, corto, medio, nei bicchieroni di carta di Starbucks. Io però - chiamatemi campanilista - tifo per quello italiano, il più concentrato e il più intenso di tutti. Caffè latino, insomma.


Muffins al caffè

Ingredienti

umidi:
2 uova piccole
200 ml latte
90 g burro fuso

secchi:
250 g farina 00
150 g zucchero
2 cucchiaini di lievito
1 cucchiaio da minestra colmo di caffè solubile

Procedimento

In una ciotola, mescolare gli ingredienti secchi; in un'altra terrina, mescolare invece quelli umidi, dopo aver sciolto il caffè solubile nel latte intiepidito. Versare gli ingredienti umidi in quelli secchi, cercando di mescolare solo il necessario servendosi di un cucchiaio di legno. Infornare in forno preriscaldato a 180° per 20-25 minuti circa (vale la "prova-stecchino").