domenica 29 marzo 2009

Mai dire Banzai!


Il termine "stravagante" è sinonimo di "eccentrico", che è sinonimo di "bizzarro", che è sinonimo di "strano", che è sinonimo di "alquanto singolare", che a sua volta è sinonimo di giapponese. Sì, proprio quei giapponesi dagli occhi a mandorla, la statura bassa, i capelli lisci e corvini. Ogni volta che scopro qualcosa in più su questo popolo rimango esterrefatta, nel bene o nel male. Ultimamente, poi, sono sempre più affascinata dalla cultura del Sol Levante, da noi così distante e diversa: anche criticarla mi appare sbagliato, là vigono regole e costumi completamente estranei ai nostri. Qualcosa che qua può sembrare inammissibile, là magari è ritenuto giusto, e viceversa. Rimane il fatto che i picchi di stramberia raggiungono livelli inaspettati.
I giapponesi fanno il funerale alle loro scarpe, perché secondo loro queste sono le compagne inseparabili di una vita: il rito consiste in un enorme falò che brucia decvolletée, stringate e mocassini. [Lacrime agli occhi e voce singhiozzante che dice: "Erano così calde, sono state delle brave pantofole..."]
Nei ristoranti giapponesi, la maggior parte delle volte, ogni tavolo è fornito di una griglia per cucinare la carne; questo perché a molti giapponesi piace cucinare la carne per conto proprio persino al ristorante, in quanto secondo loro il parlare va di pari passo col cucinare. [Cioè, se io vado al ristorante si presuppone che, almeno per stavolta, non abbia la minima intenzione di cucinare. Però è vero, quando cucino e ho qualcuno vicino, la mia vena logorroica prende il sopravvento.]
I giapponesi sono terrorizzati dall'aggravarsi di malattie anche innocue, come un banale raffreddore. Non appena si ammalano, si infilano una mascherina bianca per ridurre il contagio e per non peggiorare la situazione: la mascherina viene tolta solamente di notte. [Penso che un Efferalgan sia comunque più comodo e più gradevole, anche dal punto di vista estetico.]
In Giappone si può fumare ovunque, ma davvero ovunque, tranne che per strada. [Ora, dico io, in strada almeno c'è ricambio di ossigeno, e il fumo passivo è sicuramente smorzato dall'aria aperta. E poi si usano le mascherine...]
Hanno prodotto il budino da bere (Purin Shake), il crème caramel più grande del mondo, mangiano pesce palla (fugu) nonostante sia pericolosissimo per la tetrodotossina presente nel fegato e nelle ovaie dell'animale. [Mangia che ti passa]
BaaKodo Atama cioè "Testa a codice a barre" è come i giapponesi prendono in giro chi ha pochi capelli e si fa il riporto. [Abbiamo trovato un nuovo soprannome ad un certo premier!]
Hanno dei ristoranti in cui, pagando un prezzo fisso, si può mangiare senza limitazioni, se non di tempo. [Ci restano due minuti per finire il riso al curry, gli spaghetti di soba e gli onigiri, forza, ce la possiamo fare!]
In Giappone gli ombrelli non sono considerati proprietà privata, bensì beni della comunità, di cui ci si può appropriare liberamente. [Quindi portarlo sempre con sé, oppure porci l'etichetta: "A chi ruba quest'ombrello, veleno nel pesce palla di stasera"]
Gli impiegati statali giapponesi non possono rimanere più di tre anni nello stesso posto. [Non affezionarsi al collega, meglio alla stampante o al cactus vicino al cestino, sarà più facile rimpiangerlo]
Insomma, io non so se riuscirei a vivere a lungo in Giappone, o comunque sarebbe difficile per me abituarmi a quella vita. Mica tanto perché mancano i cestini per strada o perché nei bagni pubblici non esistono salviette con cui asciugarsi le mani, quanto per... LEI. La vera Sovrana nipponica. HELLO KITTY. A quanto ho capito, è veramente dappertutto, anche sulla carta igienica e in macelleria fatta di cotechino. Quella gattina obesa io non l'ho mai sopportata, mentre là è una specie di divinità. Oltretutto lei ha posato per Vogue Giappone e io no, non è mica giusto.

Per suggellare le mie nippo-considerazioni, vi offro questo cheesecake, leggero ed impalpabile come una nuvola, da accompagnare con della marmellata preferibilmente fatta in casa.
Arigatò!


Japanese Cheesecake

Ingredienti

125 g formaggio fresco (Philadelphia)
50 g burro
3 uova
80 g zucchero
50 ml latte
10 g amido di mais (maizena)
30 g farina
un cucchiaino di succo di limone
una puntina di lievito per dolci
una puntina di sale

Procedimento

Porre il burro ed il formaggio a temperatura ambiente in una ciotola. Servendosi delle fruste elettriche, lavorarli fino ad avere una crema densa, ma liscia. A questo punto unire il latte, i tuorli, il succo di limone, mescolando continuamente con un cucchiaio. Incorporare poi la farina setacciata, la maizena e il sale. Montare gli albumi insieme al lievito finché siano quasi sodi, quindi unire gradualmente lo zucchero, fino ad ottenere degli albumi ben compatti. Incorporarli delicatamente, mescolando dal basso verso l'alto, al composto a base di formaggio preparato in precedenza. Per finire, versare l'impasto in uno stampo foderato di carta da forno dal diametro di 22 cm. Sistemare lo stampo dentro una teglia più grande, versare un paio di dita di acqua in questa seconda teglia e infornare il tutto a 150° per 80 minuti circa, fino a quando la superficie non si sia scurita. Lasciar intiepidire e sfornare su una gratella per dolci, facendo particolare attenzione mentre si sposta il dolce.

sabato 28 marzo 2009

Dritto e rovescio, dritto e rovescio, dritto e...


A parte per l'incantevole Jonathan Rhys Meyers, coi suoi occhi verdi e il suo savoir faire; a parte perché la regia è di Woody Allen, a mio parere genio indiscusso della cinematografia e degli aforismi; a parte per la presenza della Marilyn moderna Scarlett Johansson, attrice indiscussamente brava; a parte perché è girato a Londra, una delle mie città europee preferite; a parte questo smisurato elenco di motivi, Match Point è uno dei miei film preferiti. L'ho già visto tre volte, e lo guarderei volentieri una quarta. Solitamente non mi sbilancio mai per un film: visto una volta mi basta. Match Point invece è come una scatola di cioccolatini al peperoncino: uno tira l'altro, non importa quanto poi la lingua bruci, ma il gusto che lascia in bocca è l'importante. E ogni volta che lo guardo ne traggo conclusioni nuove. Delle filosofie di vita, per intendersi: il film è dissacrante, mostra tutta l'ipocrisia e l'egoismo di cui la società di oggi è capace. È guardare in uno specchio e vedere che ci è spuntato un brufolo enorme in fronte, che non possiamo togliere, ma solo mascherare con del fondotinta, per poco tempo però. Più ci penso, e più condivido il leitmotiv della pellicola in questione:

Nella vita non conta il talento, conta solo la fortuna.

Cinica. Icastica. Dissacarante. Chiamatemi come volete, ma secondo me Woody, coi suoi occhialoni pesanti a fondo di bicchiere, ha capito tutto. In realtà già gli antichi Greci erano un pezzo avanti, mica tanto per la democrazia, i poemi e le acropoli, quanto per la divinità che adoravano più di ogni altra Era o Atene: la Tyche. Questa era proprio la personificazione della nostra Fortuna. Se una città cadeva in guerra o in carestia, era perché la Tyche aveva voluto così. Le stesse divinità avevano sicuramente più poteri degli esseri umani, ma dipendevano sempre dal vincolo della Tyche: la Sorte, insomma, era qualcosa a cui non si poteva andare contro, eroi e titani inclusi. Per esempio, se troviamo subito il parcheggio per l'auto in centro a Milano, non lo dobbiamo mica al servo sterzo, bensì alla fortuna. "Così però è riduttivo", obietterete voi. "Il talento conta eccome, la vita non è mica una partita di tennis", già mi sembra di sentire le vostre parole, inaciditi dalle parole di questa tartina che non ha capito niente di niente. Mi spiego meglio, allora. Mettiamo caso che uno studente si trovi ad affrontare un esame molto impegnativo e complicato. Mettiamo anche che lo studente non solo sia personalmente dotato, ma che si impegni e si dia da fare costantemente. Lo studente, che chiameremo per comodità Ildebrando, la mattina dell'esame si sveglia, pronto ad affrontarlo, conscio di aver studiato il più possibile. È un test a domande aperte. Vuoi per l'ansia, vuoi perché succede a tutti, Ildebrando ha un vuoto di memoria, e non si ricorda come riescano i catalizzatori ad abbassare l'energia di attivazione di una reazione cineticamente sfavorita. Il povero Ildebrando pensa anche che, in un programma così vasto, è quasi impossibile che gli capiti proprio quella domanda, che sarebbe proprio Sfortunato, per quanto si è dato da fare. E invece, ecco che all'esercizio numero 5, spunta la domanda: "Spiega in che modo agiscono i catalizzatori". Ildebrando si dispera, cerca di ricordarsi, ma l'agitazione prevale su di lui, non riuscendo a farlo ragionare bene. Eppure si ricorda il disegno, il numero della pagina del libro, ma non gli sovviene la risposta. Ildebrando scrive qualche parola dettata dal buon senso e dalle altre conoscenze nella chimica inorganica, ma questa domanda gli costerà il 30, se non il 28 agognati e meritati. Questo per farvi capire che la fortuna va sopra il talento: Ildebrando oggi è un chimico affermato, talentuoso e geniale, sta per fare una scoperta che ci rivoluzionerà la vita, ma in quella precisa occasione è stato proprio sfortunato. A mio parere, lo stesso fatto di avere del talento, è dettato dalla fortuna. Il semplice talento non può bastare. Metti un uomo talentuoso, con delle capacità fuori dalla norma; se non è baciato dalla Fortuna perché in quel preciso momento aveva l'alitosi ed è nato in una famiglia che, per esempio, non può permettersi di pagargli gli studi, rimarrà un uomo talentuoso con un lavoro comune, mentre potrebbe mettere al servizio degli altri e della società la sua particolare attitudine per qualcosa (che sia nel campo dell'ingegneria aerospaziale, che sia nel campo di fragole). Per concludere, la vita è un concentrato, di cui il 90% è Succo della Fortuna, e il 10% Passato di Talento.
Quando la pallina colpisce la rete, bisogna solo sperare che non cada all'indietro, ma che la oltrepassi, e la vittoria è assicurata.

Sentitevi fortunati, perché oggi ho deciso di postare un secondo piatto. Evento per me, cuoca dedita a dolci, sfizi e primi piatti, piuttosto insolito.


Spiedini di carne

Ingredienti (per 6 spiedini)

2 hg petto di pollo
2hg petto di tacchino
4 salsicce
75 g pangrattato
rosmarino, salvia, prezzemolo
sale
aceto
olio
bastoncini per spiedi

Procedimento

Preparare un impasto unendo al pangrattato un rametto di rosmarino, qualche foglia di salvia e un mazzetto di prezzemolo tritati finemente. Aggiungere un po' di aceto e di olio e amalgamare.
Tagliare i petti di pollo e di tacchino a bocconcini, salare e pepare quanto basta. Spellare le salsicce e realizzare delle palline, condendo con poco sale. Passare i tre tipi di carne nell'impasto di erbette precedentemente preparato, avendo cura di premere leggermente per farlo aderire meglio.
Infilzare i bocconcini nello spiedino di legno, infine far cuocere nella griglia già calda per circa mezz'ora, o fino a che saranno dorati (dipende dalla griglia usata.)

domenica 22 marzo 2009

Revival



A mio parere il detto "Chi cerca trova" non è del tutto veritiero. Capita molte volte, infatti, che chi cerca non trova quello che desiderava: a seconda dei casi, può trovare di meglio o, ahimè, di peggio. Ad esempio, se si è perso un anellino di argento ai parchi pubblici ci si potrebbe imbattere, durante la sua ricerca, in una collana di perle come in un escremento di cane (io appartengo più alla seconda categoria). Molte volte, invece, capita che chi cerca trova qualcos'altro che non si sarebbe aspettato di trovare, o qualcosa che aveva dato per perso da tempo, o ancora qualcosa che non si ricordava di possedere. Giorni fa mi sono messa a rovistare nei piccoli cassetti del salotto, che contengono una quantità esagerata di... cassette. Non sto parlando di cassette di frutta, e neanche di VHS, piuttosto delle vecchie e care musicassette, le compact cassette, insomma quelle che oggi sono state sostituite di sana pianta dai CD, quelle con il nastro che io mi divertivo a srotolare, quelle su cui potevi registrare le tue imbarazzanti performance musicali e poi riregistrarci sopra, facendo finta di niente. Dopo aver riesumato la cassetta originale di Céline Dion che avevo fuso in corrispondenza della traccia My heart will go on (erano i tempi di Di Caprio e del Titanic), sono partita alla disperata ricerca delle varie Hit Mania Dance, con cui mi smannavo in balli convulsi d'estate, ai villaggi turistici e poi a casa, dove potevo riproporre le mosse abilmente apprese. Come avrete intuito dall'inizio del post, non ho assolutamente trovato alcuna delle cassette che cercavo, bensì una che mai mi sarei aspettata di trovare: "Le più belle canzoni di Cristina D'Avena", vol. 2 L'ho immediatamente infilata nel registratore, e ne sono uscite le canzoni che hanno accompagnato i pomeriggi della mia infanzia, quando, mentre facevo merenda, mi appostavo alla televisione e seguivo tutti i cartoni giapponesi possibili. C'è Mila e Shiro, con le giocatrici di pallavolo che stanno mezz'ora in aria a pensare dove schiacciare la palla, se stanno bene con la nuova divisa e cosa mangeranno per cena. C'è Pollon, che con la sua dubbia "Sembra talco, ma non è, serve a darti l'allegria!" diventa la pusher dell'Olimpo. C'è O-o-o-occhi di gatto, con le tre sorelle che han fatto un patto. C'è L'Incantevole Creamy, che con il suo Parimpampù si trasformava nella Britney Spears di Tokyo. E poi c'è Lycia, con l'odioso gatto Giuliano e Mirko, che si è spalmato in testa metà barattolo di maionese e metà barattolo di ketchup. C'è Piccoli problemi di cuore, con le mille seghe mentali di Miki. C'è Là sui monti con Annette, dove il cielo è sempre blu. Sebbene manchi Sailor Moon, di cui io non mi sono persa neppure una puntata (avevo anche lo scettro, ma mi chiedevo come mai nessuno riuscisse a riconoscerla quando si trasformava), la cassetta trovata è per me preziosa. (Ovviamente non vi rivelerò che l'ho messa a tutto volume cantando a squarciagola e saltando per la stanza con foga, sarebbe troppo imbarazzante. Ehm...)
Cristina D'Avena oggi ha 45 anni e non dimostra minimamente l'età che ha. Se mi metto a remixare Doraemon, dite che posso ritardare il botulino?


Panna cotta alle arance rosse

Ingredienti

per la panna cotta:

200 ml panna liquida
150 ml latte
100 g zucchero
15 g colla pesce (3 fogli)
2 arance rosse (qualità Tarocco)

per guarnire:

20 g cioccolato fondente al 70%

Procedimento

Versare in un pentolino la panna e il latte. Unire anche lo zucchero e la scorza grattugiata di un'arancia. Quando inizia a bollire, filtrarlo con un colino ed aggiungere la colla di pesce precedentemente tenuta in ammollo per 10 minuti e poi strizzata. Mescolare e lasciar raffreddare. Quando il liquido sarà freddo, versarvi il succo delle due arance spremute, dopo averlo filtrato. Mescolare bene e versare nei bicchierini o nelle coppette. Porre in frigorifero per almeno 4 ore (meglio se una notte intera).

Per le guarnizioni, far sciogliere il cioccolato fondente, quindi creare con il cucchiaino dei ghirigori sulla carta da forno. Porre in frigorifero a raffreddare per 2 ore circa.

Quand'è il momento di servire, staccare delicatamente i decori di cioccolato e infilzarli nella panna cotta, unendo magari delle scorzette d'arancia candite.

sabato 21 marzo 2009

Orgoglio e.



La parola pregiudicare è facilmente scomponibile in pre e giudicare. Solamente questa facile separazione permette di coglierne immediatamente il significato, anche per un italiano che è andato a vivere molti anni fa in Australia, ci ha trascorso l'intera sua vita ed è tornato ricordandosi solamente le formule di saluto/congedo. Per chi invece è andato a vivere in Groenlandia, ci penso io: pregiudicare significa "giudicare prima". Prima di cosa? Prima di conoscere come stanno realmente le cose, rispondo all'italo-groenlandese. Non solamente al tempo della fortunata Elizabeth Bennet e del bel tenebroso Mr. Darcy, le persone avevano la tendenza a pregiudicare, o a giudicare dalle apparenze; anche, e forse soprattutto, al giorno d'oggi il Pregiudizio sembra essere la nuova moda, accanto alle tute e agli harem pants. Mi spiego meglio. A volte le persone hanno dei pregiudizi che non implicano necessariamente che sottendano qualcosa di malvagio o immensamente crudele: questi sono i Pregiudizi Inconsapevoli. Faccio un esempio: una vostra amica vi sottopone, per l'ora del tè, dei piccoli dolcetti deformi, di un colorino poco allettante e duretti al tatto. La vostra prima impressione si sfogherà sicuramente in una smorfia di disgusto, e il vostro primo pensiero sarà sicuramente "Perché non ho fatto i muffins io come al solito?" Magari invece, assaggiandone uno, potreste scoprire che il dolcetto in questione è in realtà delizioso, che si chiama Brut e bon , e che andrà a sostituire nel vostro cuore la tanto amata Torta della Nonna. Poi ci sono i Pregiudizi Acidi, come può essere il commento pungente all'arrivo di una nuova collega, che si rivela racchia e grossa come Ugly Betty. Magari quella persona nasconde un animo bellissimo, e potrebbe diventare la vostra migliore amica, anche se non compra tronchetti di Prada. In questo caso il pregiudizio vi occluderà anche la possibilità di conoscere una nuova persona solo perché non è attraente esteriormente. A volte però i pregiudizi possono essere ben fondati. Ad esempio, se l'agenzia turistica sbaglia a prenotare e vi ritrovate ad alloggiare in un ostello sperduto situato nel ghetto più malfamato di Caracas (vicino al bar del Pampero), forse il vostro pregiudizio che vi porta a non uscire la sera è giusto, e vi eviterà di ritrovarvi con 200 euro in meno e con brutta gente intorno. A mio parere, però, i peggio sono i Pregiudizi Maligni&Stupidi&Ignoranti. Purtroppo sono anche i più diffusi. Occorre un esempio che è successo davvero, e che ancora, se ci ripenso, mi lascia a bocca aperta, ma non per lo stupore, piuttosto per l'indignazione. Insomma, ogni volta che ripenso all'evento mi viene da pensare in che mondo viviamo. Quest'inverno, in casa mia, si sono scoperti i Fagioli Neri (o messicani). Non li avevamo mai assaggiati, ma, non appena abbiamo ingurgitato la prima cucchiaiata, è stato amore a primo morso. Sono, secondo me, i legumi più buoni di tutti, e non sto esagerando. Scodelle su scodelle di tale prelibatezza hanno accompagnato molte mie cene in questa fredda stagione. Ecco, è successo questo: quando mia madre è andata a ricomprarli dal "Frutta&Verdura" di fiducia, non li ha ritrovati. Chiedendo alla commerciante (anch'essa di fiducia), ha saputo che erano andati a ruba, e che, per il momento, non li avevano riforniti. Fin qui tutto bene. A parte il dispiacere di non poter godere del tanto adorato fagiuolo a prezzo ragionevole e provenienza certa, sembrava tutto normale. Senonché. Esatto, senonché la commerciante ha aggiunto perplessa: "Che poi, chissà come fanno ad andare così a ruba! Io e la mia famiglia, per esempio, non ce la facciamo neanche ad assaggiarli, quei fagioli così neri!" Una esclamazione di questo tipo può farci riflettere su tante cose: sulla società razzista in cui viviamo, intollerante e bigotta, discriminante addirittura anche verso una cibaria per il solo colore che ricorda quello di un'etnia; su come i pregiudizi si possano rivelare totalmente infondati e sbagliati, talvolta crudeli; su quanto i fagioli neri siano gustosi e sull'animosità con cui ve li consiglio caldamente.

Poiché questo risotto che sto per proporvi è un piatto che ci ha accompagnato per tutto l'inverno, ne approfitto per partecipare al contest "Cattura questa stagione: inverno", bandito dal blog Pasta, amore e fantasia e sponsorizzato dalla celeberrima Compagnia del Cavatappi.
Visto che poi, l'inverno mica è ancora finito! Oggi che dovrebbe essere l'equinozio di primavera sembra di essere in una di quelle palline piene di neve finta che, se le agiti un po', scatenano una tempesta di cristalli di polistirolo.
Quindi, un'ultima coccola invernale per riscaldare queste sere.


Riso e fagioli neri

Ingredienti (per 2 persone)

200 g riso Arborio
100 g fagioli neri
2 spicchi d'aglio
1 scalogno
2 carote
1 costa di sedano
olio extravergine di oliva
sale

Procedimento

La sera prima, mettere a bagno i fagioli in una pentola, in modo che l'acqua li copra abbondantemente. La mattina, aggiungere un cucchiaio di sale e gli spicchi d'aglio, mettere sul fuoco, portare a ebollizione e far cuocere per almeno 2 ore e un quarto; se occorre, unire ancora acqua. Mescolate di tanto in tanto.

Preparare il riso, mettendo lo scalogno tritato in una padella con dell'olio. A fuoco basso, fare appassire appena lo scalogno, quindi unire la costa di sedano e le carote a pezzettini piccoli e far andare per altri due minuti. Unire il riso, facendolo tostare per due minuti circa. Alzare un po' la fiamma e far cuocere il riso, aggiungendo mano a mano i fagioli e il loro liquido di cottura ancora caldo quanto basta, in modo che venga assorbito dal riso. Trascorso il tempo di cottura del riso riportato sulla confezione, aggiungere un filo di olio a crudo, mescolare e servire.

domenica 15 marzo 2009

Optical


Molte persone tendono a vedere tutto bianco o tutto nero. Questo non significa che possiedono degli occhiali speciali dalle lenti colorate: prima di tutto perché sarebbe sconveniente andare a sbattere contro il primo palo della luce per la strada, in secondo luogo perché non sono di moda (non ancora). Significa invece che molte persone tendono a vedere tutto positivamente o tutto negativamente. Chi vede tutto bianco, vede anche il bicchiere mezzo pieno; chi vede tutto nero, lo vede mezzo vuoto. È avere una diversa prospettiva, e un diverso approccio alla vita. Sembra poi che, ultimamente, le vie di mezzo non esistano più. Il buon vecchio grigio è stato eliminato dai colori di stagione, per non parlare dei colori!, e tutto sembra estremizzarsi eccessivamente. Se, ad esempio, a qualcuno si buca la ruota dell'automobile, a quel qualcuno sembrerà di avere la sfiga peggiore del mondo, soprattutto se, nel frattempo, si mette anche a piovere. Quel qualcuno non penserà certamente che esistono sfortune peggiori, terribili al confronto. Se ad un altro, nel frattempo, capita di vincere 5 euro al Superenalotto, questo penserà di essere estremamente fortunato, mentre sappiamo tutti che molte persone se la passano meglio di lui. Il cervello umano sembra funzionare un po' come un codice binario, ed ha la tendenza ad etichettare tutto: i sentimenti, gli eventi, le persone. Buono o cattivo, brutto o bello. La verità è che il mondo è invece ricco di sfaccettature, e che dovremmo smettere di vedere tutto in un modo o tutto in un altro. Da esperienze brutte può nascere anche qualcosa di estremamente positivo, sembra un paradosso, ma è così. Non ci troviamo in una favola, dove il Cattivo è sempre riconoscibile, e di solito è una strega e svende mele Stayman avvelenate. So anche bene che la divisione tra Bene e Male è ancestrale, ma, coi tempi che corrono, dovremmo imparare a vederle, quelle sfumature di mezzo. E non pensare di avere sempre ragione, di arroccarci irremovibili nelle nostre convinzioni, ma cercare di ascoltare ogni punto di vista, non traendo conclusioni affrettate e rivedendo le nostre posizioni. Ovviamente parla una che si indigna solamente se qualcuno si prova a muovere una minima critica o a dare un suggerimento sul piatto che ha preparato. Basta un "Secondo me manca un pizzico di sale...", che la mia arcata sopracciliare assume la forma di un angolo di 30°, le narici si stringono sibilanti, la bocca si contrae, e quello che ne esce sono le seguenti parole "Ho seguito la ricetta, e poi mi sembra che sia perfetto!" e poi le temibili conseguenze che la mia reazione può scatenare. Ecco, secondo la teoria del grigio, in questi casi dovrei semplicemente prendere atto che manca quel pizzico di nitrato di sodio, che la prossima volta dovrei aggiungerlo, che quel povero avventuriero che ha fatto quel commento ha semplicemente espresso il suo parere.

Con la speranza che impariamo ad ascoltare di più gli altri, senza estremizzare troppo, vi lascio questi dolcetti in cui, ebbene sì, bianco e nero coesistono senza problemi.

Muffins marmorizzati

Ingredienti

80 g burro
125 g zucchero
2 uova
250 g farina
2 cucchiaini di lievito per dolci
35 g cacao amaro
1 bustina di vanillina
latte q.b.

Procedimento

In una terrina, lavorare per qualche minuto burro e zucchero servendosi delle fruste elettriche, finché non si ottiene una crema. Aggiungere un uovo alla volta, amalgamando ognuno sempre continuando ad usare lo sbattitore. Quando si sono unite tutte le uova, aggiungere un poco alla volta la farina ed il lievito setacciati, e mescolare con un cucchiaio, ottenendo un impasto piuttosto denso e compatto. Porre metà del composto in un'altra terrina: in uno, aggiungere la vanillina e mescolare; nell'altro, unire invece il cacao amaro setacciato e un po' di latte, per renderlo più fluido. Alternare i due composti negli appositi stampi da muffins, servendosi di un cucchiaio e senza preoccuparsi di mescolare, in modo da ottenere l'effetto marmorizzato. Cuocere in forno preriscaldato a 180° per 20 minuti circa.

sabato 14 marzo 2009

Io non posso restare seduto in disparte, né arte né parte - Spaghetti alla chitarra con carciofi e pomodorini ciliegia


La parola "diapositive", solitamente, non porta con sé nulla di buono. I vostri vicini, una sera dopo cena, potrebbero costringervi a vedere le famigerate diapositive delle vacanze, e a quel punto non potrete sottrarvi al supplizio di vedere le loro facce ebeti e sorridenti tra le Piramidi di Cheope o davanti alla Tour Eiffel che emette luminescenze convulse. Oppure, le diapositive di un pupo appena nato. Dopo circa 10 "bellino" o "'ennino", vi potrebbe prendere una paralisi facciale, nonostante la tenerezza del bambino in questione. Una seduta di diapositive io non la augurerei neanche al mio peggior nemico, ecco. Potreste uscirne lobotomizzati, come Alex di Arancia Meccanica. È per questo che, quando il prof. di Citologia ed Istologia ha pronunciato la parola "diapositive", mi si è chiuso lo stomaco dalla paura. Immagini su immagini di microscopi ottici, focali, fluorescenti, si susseguivano davanti agli occhi stanchi di più di cento studenti, immersi nella penombra per favorire la riuscita delle... diapositive. La noia ha raggiunto apici inaspettati. Ecco come si è consumata la mia ripresa all'università, con un sacco di diapositive. E anche un sacco di appunti da prendere, con la mano che a volte si atrofizza, ed è dilaniata dai crampi, la schiena ricurva, la fronte aggrottata. E poi, siori e siore, che si apra il sipario, arrivano i nuovi professori del secondo semestre: il professore delle diapositive sembra una tartaruga (credo che il suo secondo nome sia Michelangelo, o Raffaello, o Leonardo, o Donatello), ed è dotato dei più recenti apparecchi tecnologici, tra cui un Mac da me tanto agognato, mouse senza fili e palmare alla mano; il prof. di fisica, invece, appartiene evidentemente alla classe degli organismi monocigliari, gesticola più di Alberto Angela e ha una voce bianca da uomo evirato (a volte è stridula, e raggiunge note mai sentite prima di adesso); vogliamo parlare di chimica organica? Ecco, lui sembra proprio di quelli s... severi. Nonostante il corpo docenti di rara fattura, è stato comunque bello riprendere. Ovviamente, è la mia iperattività a parlare. Non riesco a stare giornate senza concludere nulla, ho bisogno del tran tran Firenze-casa-università-casa-chesicucinaacena?-iolavoisanitari-casa-università-treno. Non dico che non sia pesante, certo, però è sempre meglio che trascorrere le giornate interamente davanti allo schermo del piccì, aspettando l'"ora d'aria" per uscire un po'. Poi, finalmente, è arrivata un po' di primavera, le temperature cominciano ad alzarsi timidamente, l'inverno sembra un ricordo lontano, nonostante il caro colonnello Giuliacci abbia già deluso le mie aspettative preannunciando un'ondata di freddo a partire da lunedì. Tutto intorno a me sembra gridare Rinascita. È una nuova stagione, una nuova era.

Ricominciamo.

(Tra una settimana ne riparliamo, magari, eh?)

Spaghetti alla chitarra fatti in casa con carciofi e pomodorini ciliegia

Ingredienti

per gli spaghetti alla chitarra:

4 uova
1 cucchiaio di olio di oliva
farina q.b. (più o meno 400-500 etti)

per il condimento:

2 scalogni
4 carciofi
1 etto di pomodorini ciliegini
olio extravergine di oliva
sale
parmigiano reggiano grattugiato


Procedimento

per gli spaghetti alla chitarra:

In una terrina, porre la farina a fontana, poi sbattere dentro a questa le uova e l'olio. Lavorare l'impasto finché diventa omogeneo ed elastico (aggiungere della farina, se necessario). Formare con esso 4 sferette, e lasciarle riposare per una mezz'ora. Trascorso questo tempo, riprenderle, disporle sulla spianatoia infarinata e, con il mattarello, tirare delle sfoglie rettangolari, molto allungate e non troppo sottili. Porre ciascuna di esse sull'apposita chitarra, quindi passarci sopra il mattarello pigiando, senza farlo rullare. Porre gli spaghetti in un vassoio infarinato.

per il condimento:

In una padella, versare dell'olio ed aggiungere gli scalogni tritati finemente. Farli appassire a fuoco basso, quindi aggiungere anche i carciofi precedentemente mondati ed un pizzico di sale, e alzare leggermente la fiamma. Far cuocere i cuori di carciofo per 5 minuti circa. Aggiungere anche i pomodorini, facendo cuocere per altri 5 minuti.

Lessare gli spaghetti alla chitarra in abbondante acqua salata, facendoli cuocere per 3 minuti circa. Farli saltare nella padella del condimento, unendovi anche il parmigiano reggiano e facendo amalgamare così la pasta al condimento.

domenica 8 marzo 2009

Pink Power


È stato sicuramente un maschilista sfegatato ad inventarsi la Festa della Donna. Perché celebrare la morte di 129 operaie arse vive nella fabbrica della Cotton a New York (1908)? Cosa c'entra con l'universo femminile questa impensabile crudeltà di un padrone prepotente e senza rispetto per la vita altrui? E perché regalare la mimosa, che tra i fiori non è neanche il più bello e, diciamocelo, il suo odore dopo un po' va alla testa? Perché l'8 marzo accade sempre la solita scena deprimente di schiere di donne che fanno la fila per vedere qualche spogliarellista? Perché si festeggia la donna, quando esiste il detto "donne al volante, pericolo costante" (ma intanto noi non ci scandalizziamo di un granello di polvere sul cruscotto!)? Perché si festeggia la donna, quando ancora esiste il sesso a pagamento, e sono molti, troppi, i casi in cui le donne vengono violate ed abusate, trattate al pari di oggetti, anche all'interno delle mura domestiche? Perché si festeggia la donna, quando in televisione ne appare il prototipo peggiore, emblema di un mondo stupido e superficiale? Perché si festeggia la donna, quando, per ottenere la sua emancipazione, lei ha dovuto lottare strenuamente per anni e anni, ed è ancora lontana dal miraggio delle pari opportunità? Perché si festeggia la donna un solo giorno all'anno? Donne, fate vedere che oltre alle gambe, c'è di più.

A tutte voi, dedico questi dolcetti, da me inventati, che richiedono una preparazione un po' lunga e laboriosa, ma dal risultato decisamente soddisfacente.

Delizie rosa

Ingredienti

per la base:

4 uova
250 g farina
250 g zucchero
2 cucchiaini di lievito per dolci
scorza grattugiata di un limone
marmellata di more

per il ripieno:

200 g frutti di bosco
5 cucchiai di zucchero
6 cucchiai di acqua

per la mousse:

250 ml panna liquida
375 ml yogurt ai frutti di bosco
4 cucchiai di zucchero a velo
1 bustina di vanillina
12 g fogli di colla di pesce

per il topping:

marmellata di more
frutti di bosco
zucchero

Procedimento

Preparare, meglio se il giorno prima, il pan di spagna: con le fruste elettriche montare a lungo, per almeno 15 minuti (è questo il segreto per la perfetta riuscita di un buon pan di spagna), le uova con lo zucchero. Quando il composto scenderà "a nastro", unire anche la farina setacciata, il lievito e la scorza. Mescolare e porre in una teglia (rettangolare, 40x20 cm); servendosi di un cucchiaino, formare con la marmellata di more delle strisce ondulate abbastanza spesse, come a voler decorare l'impasto. Infornare per 30 minuti in forno preriscaldato a 180°. Quando sarà pronto, lasciare raffreddare.

Porre gli stampini rotondi sulla carta da forno. Spolverare il pan di spagna con abbondante zucchero a velo (in modo che la marmellata non si attacchi agli stampini), quindi, con un coltello, tagliare delle strisce di pasta di1,5 cm di altezza. Tagliare poi le strisce in rettangolini. Porre i rettangolini dentro gli stampi, in modo che l'esterno (la parte decorata con la marmellata), stia a contatto degli stampi. Porre del pan di spagna anche alla base del cerchio formato.

In un pentolino, riscaldare i frutti di bosco (anche surgelati), lo zucchero e l'acqua per un minuto circa. Con un cucchiaio, porli sopra la base di pan di spagna precedentemente creata, bagnandolo molto con il liquido. Fare una leggera pressione sul pan di spagna e sui frutti di bosco, in modo da compattare la base e abbassarla.

Preparare la mousse, mescolando lo yogurt allo zucchero a velo e alla vanillina. Tenere in ammollo per 10 minuti la colla di pesce, quindi strizzarla e farla sciogliere in un pentolino con 2 cucchiai di acqua. Aggiungerla allo yogurt, ed infine unire anche la panna semimontata. Versare la mousse nelle basi, livellandone infine la superficie.

Porre il tutto a raffreddare in frigorifero per almeno 5 ore, meglio se una notte intera.

Sformare i dolcetti facendo pressione con le dita sulla base e sfilando via lo stampino. Porre nei pattini da portata e decorare con un cucchiaino di marmellata di more e alcuni frutti di bosco leggermente zuccherati.

sabato 7 marzo 2009

Goodbye, my lovers - Riso al curry, gamberetti e germogli di soia


Le partenze sono sempre tristi, o comunque avvolte da un certo alone di malinconia. Ovviamente non mi sto riferendo a quelle a breve termine: se vostra madre va a fare la spesa, non la salutate certamente sventolando un fazzolettino bianco con le lacrime agli occhi. Se invece un vostro amico va a fare un viaggio, saprete che vi mancherà nel tempo in cui non ci sarà: se da una parte sarete felici per lui, dall'altra sarete un po' dispiaciuti e consapevoli di non averlo lì come prima. Se ancora, il vostro amico si trasferisce a km di distanza, ecco, quella è una delle più dolorose partenze, e il commiato avverrà con lacrime e con un grande morso allo stomaco difficile da eliminare persino con il Maalox. Ogni partenza ha le proprie caratteristiche, insomma, e la nostra vita è continuamente fatta di partenze, più o meno importanti. Lunedì 9 marzo mi ricominciano le lezioni: questo breve tempo trascorso a casa mi ha permesso di rilassarmi e di intraprendere questo sfizioso percorso con il mio foodblog. Però, vi dirò la verità, forse perché sono una persona iperattiva, forse perché sono una che si stanca facilmente della quotidianità, sono contenta di riprendere tutto. So che le lezioni mi assorbiranno fino al venerdì, so che ci sarà da fare i conti con la convivenza, ma so anche che inizia una nuova stagione, ed è bene prendere la cosa col giusto spirito. L'unico rammarico, ed è qui che volevo andare a parare, è che là sarò sprovvista della linea adsl, disponendo solamente della connessione tramite smart phone, o palmare, che dir si voglia. Oltretutto la casetta è quella che è: è un buchetto confortevole in cui vivono 4 ragazze universitarie, con la tovaglia di plastica a fiori e la lavagnetta in cucina, ecco. Non potrò certamente preparare pranzi luculliani e fotografarli in quell'habitat così poco gourmet! In definitiva -basta procedere per sillogismi -, quello che vi volevo dire è che da lunedì non potrò più postare la mia ricetta giornaliera, ma mi ridurrò ad una o a due, se tutto va bene, a settimana; inoltre non potrò più seguire i vostri foodblogs assiduamente come facevo adesso, e neanche commentare le vostre splendide ricette. Mi dispiace, ormai ci avevo preso gusto (in tutti i sensi), però non posso fare altrimenti, a meno che qualcuno non mi regali un ristorante e possa iniziare felicemente la mia carriera di cuoca professionista. A domani con l'ultima ricetta, grazie di avermi supportato e seguita ogni giorno, spero che continuiate a farlo nonostante la sporadicità dei miei post ;)
I Kleenex li trovate vicino alla stampante.


Riso al curry, gamberetti e germogli di soia

Ingredienti (per 2 persone)

260 g riso Basmati
200 g gamberetti
germogli di soia
curry
1 spicchio d'aglio
olio extravergine di oliva
sale q.b.

Procedimento

In una padella, tritare l'aglio a pezzetti piccolissimi e aggiungere l'olio. Cuocere a fuoco basso, finché l'aglio si imbiondisce e inizia a soffriggere. A questo punto, unire i germogli di soia e il curry, entrambi a piacimento (per il curry consiglio 2 cucchiai abbondanti), alzare un po' la fiamma e far cuocere per 3 minuti circa. Unire quindi i gamberetti (se congelati, direttamente dalla busta) e un pizzico di sale, e far cuocere per altri 2-3 minuti circa.

Nel frattempo, lessare il riso in acqua bollente.
Quindi scolarlo, ed unirlo al condimento, facendolo saltare in padella.

venerdì 6 marzo 2009

Il Paese dei Balocchi


Collodi narra che quando Pinocchio, da bravo burattino gregario qual è, segue Lucignolo, quest'ultimo lo conduce nel famigerato Paese dei Balocchi, dove non vi sono scuole, né libri, non si studia mai e c'è solo il divertimento, in pratica il sogno di cinque bambini su cinque. La storia di Pinocchio che si balocca per cinque mesi nel Paese dei Balocchi è diventata un tòpos della letteratura, e "Paese dei Balocchi" l'espressione per indicare un mondo a noi congeniale, in cui si può fare tutto quello che più ci piace e che si vuole. Per esempio, il Paese dei Balocchi di un ladro sarà fatto tutto di ville vuote da poter tranquillamente svaligiare, con gli allarmi fuori uso e tutto il corpo poliziesco in vacanza alle Mauritius (se il ladro in questione abita proprio nelle Mauritius, il corpo poliziesco si troverà in vacanza al Polo Nord, dove è anche più difficile trovare degli eschimesi cleptomani). Il Paese dei Balocchi della Kostner, invece, sarà fatto tutto di ghiaccio, e lei potrà volteggiare quante volte le pare senza lì nessuna giuria a darle dei voti. Insomma, ognuno ha il proprio Paese dei Balocchi. Il mio penso proprio di averlo materialmente trovato ieri pomeriggio quando, presa dalla disperazione del dolce far niente, che a lungo andare diventa un po' tedioso, ho preso l'auto e sono andata in città (Caterina tartina va in città), intenta a voler trovare qualche ingrediente strano/esotico/alieno per le mie nuove ricette. Neanche a dirlo, imperversava il diluvio, tanto che sono stata fino all'ultimo indecisa sul prendere l'Arca, invece dell'automobile (poi però c'era il problema di tutti quegli animali, in fondo avevo deciso di andar via di casa per poco tempo...). Ovviamente, il parcheggio non si trovava. Gira e rigira, ne ho trovato uno, tant'è che penso che, prima o poi, dovrò scontare per questo colpetto di fortuna gentilmente donatomi. Scesa dall'auto, ho dovuto affrontare la pioggia a 45,7° e il vento nella direzione opposta, entrambi desiderosi di gonfiarmi i capelli e bagnarmi i jeans, forse perché mi ero fatta la doccia solo un'ora prima. Mia mamma mi aveva indicato un negozio dove poter trovare il riso nero tanto agognato, poiché è difficile trovarlo nei supermercati normali, perlomeno dove abito io: il nome del luogo in questione doveva essere La Bottega del Sole. Questo nome pieno di speranza, mi attirava come una nave al faro, come Ulisse alle Sirene, in quella fredda, umida e buia serata. Ho camminato e camminato, infilandomi nelle stradine più disparate, oltrepassando un negozio che questa settimana faceva per l'ultima volta gli sconti del 50%, un ristorante cinese, e una rosticceria che fa anche da panetteria. Disperata, sono entrata in un negozio, chiedendo informazioni. La commessa che mi ha gentilmente risposto, alla mia domanda, ha reso la sua faccia alla stregua di una prugna secca raggrinzita, esplodendo in una smorfia di diniego. Non era La Bottega del Sole che dovevo cercare, ma piuttosto I Sapori del Sole (grazie mamma di farmi fare sempre delle figure degne di nota), e si trovava a circa un metro e mezzo da lì, procedendo sulla sinistra. In pratica, quando sono uscita, mi trovavo già dentro al negozio cercato. Evitando di parlare del mio acuto spirito d'osservazione, vi descriverò direttamente il negozio. Un Paradiso. Tutti gli ingredienti più sani, biologici e disparati si trovano lì dentro! Ho cominciato a girellare con un sorriso ebete sulla faccia neanche fossi stata una bambina nell'Impero delle Barbie (o Bratz, ora vanno di moda le ragazze col testone, anche se non è sinonimo di intelligenza). Frullavo e facevo giravolte tra farina di kamut, fagioli azuki, bulgur, salsa di soia, gallette ai milleeuno cereali, alghe kombu, nori, wakame, marmellate provenienti dalla fattoria all'angolo, sesamo in scatola, fatto a barretta, da bere e da sniffare! Ho praticamente perso la cognizione del tempo, facendo tantissime domande alle due povere ragazze che, in un così grande negozio, devono rendere conto ad una massa incredibile di clienti. Ho chiesto come si reidratavano le bistecche di soia, come si cucinava il tofu, se avevano il tè matcha. Penso che alla fin fine mi abbiano odiato. Me ne sono andata gioiosa, con la mia bustina in bella mostra, ancora volteggiando sulle pozzanghere, l'ombrello aperto, cantando I'm singin' in the rain e attaccandomi ai lampioni. Mi hanno lasciato anche un opuscolo, dal titolo NATURAlife. Non è luminoso anche solo il titolo? Dentro ci sono tutte le informazioni sui prodotti più vari che neanche pensavo esistessero, quasi fossero dei mostri mitologici, delle leggende metropolitane scaturite dalla fantasia degli ideatori dei manga giapponesi. Sembra tutto così sano e così biologico! Oltretutto ho scoperto che le bistecchine di soia che ho acquistato provengono proprio dal paese dove abito io. Quindi, ho finalmente deciso il mio futuro. Dispongo di due alternative: sposo il proprietario della fabbrica di bistecchine di soia, e mi assicuro così un rifornimento continuo e perenne di cibi naturali e genuini; oppure vado a vivere nel negozio I Sapori del Sole, potrete trovarmi nel primo corridoio a sinistra, tra il latte di riso e il tè al gelsomino. L'unico rischio? Quello di trasformarmi in un asino.


Pici al tartufo (dei Sapori del Sole) con sughetto di funghi e ricotta e chips di parmigiano reggiano

Ingredienti

250 g pici al tartufo
170 g funghi misti surgelati
120 g ricotta
1 spicchio d'aglio
olio extravergine di oliva
sale&pepe q.b.
parmigiano reggiano

Procedimento

per la pasta:

In una padella, versare dell'olio e aggiungere lo spicchio d'aglio tagliato a metà. Far andare a fuoco lento fino a quando l'aglio comincia ad imbiondirsi. A questo punto, gettarvi i funghi (prelevati direttamente dalla busta, senza scongelarli) con una tazza d'acqua. Salare e pepare a piacimento, quindi chiudere il coperchio e far cuocere a fuoco medio per 10-15 minuti circa. Trascorso questo tempo, alzare il coperchio e unire la ricotta: quando sarà completamente sciolta, formando una cremina coi funghi, spegnere il fuoco. Lessare i pici al tartufo in acqua salata (il tempo di cottura lunghissimo, 22 minuti, è il prezzo da pagare per la loro genuinità), quindi scolarli e farli saltare per qualche minuto nella padella del condimento, ricordandosi di aggiungere anche poca acqua di cottura. Unire del parmigiano reggiano mentre si fanno saltare in padella, in modo che questo si sciolga, amalgamandosi alla pasta.

per le chips di parmigiano reggiano:

Grattugiare del parmigiano e metterlo da parte, quindi scaldare un padellino antiaderente. Quando sarà sufficientemente caldo, porvi sopra uno stampino da biscotto della forma prescelta e, aiutandosi con un cucchiaino, buttare del parmigiano nel padellino, stando attenti a non uscire dai contorni dello stampo. Far cuocere per 2 minuti circa, cercando di non far bruciare il parmigiano. Servendosi di una presina, prelevare lo stampo e porlo su un piatto a raffreddare: se il parmigiano continua a sfrigolare, è normale, in quanto indurirà solo raffreddandosi. Quando lo stampino sarà tiepido da poter essere maneggiato con le mani, con la punta di un coltello fare una leggera pressione sui contorni della chip, ossia nelle parti in cui è rimasta attaccata allo stampino. Vedrete che si staccherà senza problemi.

Servire la pasta nei piatti da portata, e ricordarsi di aggiungere le chips solo all'ultimo, in modo da mantenere la loro croccantezza.

mercoledì 4 marzo 2009

Il popolo ha fame? Allora dategli le brioches!


Un luogo comune è un'idea o un concetto la cui diffusione e frequenza causano la sua subitanea riconoscibilità. Ovviamente non è detto che sia sempre vero. È un luogo comune affermare "Non ci sono più le mezze stagioni di una volta", perché è un detto che veniva utilizzato magari anche sessant'anni fa, quando ancora non esistevano i deodoranti spray che avevano ulteriormente allargato il buco dell'ozono. Anche dire che in Inghilterra si mangia male è un luogo comune: magari è vero rapportando la cucina british a quella italiana, ma ammettiamo almeno che muffins, scones e roast-beef sono delizie provenienti dall'oltre Manica. "Piove, governo ladro!" è un luogo comune anch'esso, in quanto se piove non è certamente detto che sia colpa del governo. Tuttavia, che sia ladro rimane un dato di fatto, e non più un luogo comune. "La colazione è il pasto più importante della giornata" è un ulteriore luogo comune che, comunque, condivido almeno in parte. La colazione è secondo me un pasto importante - senza nulla togliere agli altri -, a cui ultimamente nessuno più presta attenzione. Quante volte capita che, al giorno d'oggi, venga preferita una tazzina di caffè trangugiata in fretta e furia prima di andare al lavoro, piuttosto che un cappuccino e un qualcosa di materialmente consistente da sbocconcellare, gustare col cucchiaino o mordere. Invece il rito del mattino dovrebbe riacquistare la sua importanza: fare colazione è innanzitutto sano, perché solo così il metabolismo si sveglia e non arriviamo all'ora di pranzo con il gran Canyon nello stomaco (magari producendo abominevoli suoni che potrebbero anche provocare il nostro disagio in ambiente lavorativo e/o scolastico); e poi è veramente piacevole. Non pretendo che le mattine degli italiani siano come quelle delle pubblicità e dei telefilm/film. Non so se avete prestato particolare attenzione alla cosa, ma in tv tutti si svegliano già pettinati e truccati, con un sorriso radioso sulle labbra, e nessuna piega sui vestiti. Solitamente la scena è quella di una famiglia perfetta (luogo comune: Al giorno d'oggi ci sono più divorzi che matrimoni): la moglie indossa una setosa lingerie di Victoria's Secret, i figli sono estremamente entusiasti di andare a trascorrere la mattinata sui banchi di scuola, e il marito, ovviamente in giacca e cravatta (anche a letto!) perché sicuramente responsabile di una grande azienda multinazionale, canta! Ebbene sì, il marito canta, a volte improvvisando anche graziosi balletti con le pastine, ma quello solo quando è particolarmente soddisfatto della nottata con la moglie. La scena si conclude sempre con il sole che splende, anche in inverno pieno, e tutti che se ne vanno allegri, la moglie che rimane sempre a casa, incarnando perfettamente il luogo comune della Donna che sta in casa a cucinare, pulire e prendersi cura dei bambini. Ecco, dimenticate tutto ciò, che è estremamente avvilente per chi si sveglia con i capelli arruffati, l'umore sotto i piedi e ancora un sonno allucinante. In compenso, però, cerchiamo di recuperarlo, questo rito del mattino! Dopo le abluzioni personali, il mio rito personale consiste nel cospargermi il viso con la crema all'olio d'Argàn direttamente proveniente dal Marocco, poi di dirigermi in cucina, dove consumo con estrema calma la mia colazione. Acqua, kiwi, yogurt e cereali con miele, caffè. Nell'ordine. Quando però ho sfornato deliziosi cornetti briosciati come quelli che vedete qua sopra, ecco, è proprio in quel momento che l'ordine cambia: acqua, kiwi, yogurt e cornetto, caffè. Perché, quel che ne dica la pubblicità, sono immensamente più buoni delle pastine con cui il marito si mette a ballare alle sette del mattino.

La ricetta è quella delle treccine zuccherate di Croce e Delizia, però riadattata per i cornetti. Avevo bisogno, infatti, di qualcosa di estremamente veloce (è ideale da fare, se avete poco tempo a disposizione), in quanto il precedente impasto aveva tradito la mia fiducia non degnandosi di lievitare nemmeno di un mm, nonostante fosse nel luogo più caldo della casa. Riporto la ricetta con delle leggere modifiche per le brioscine.

Cornetti briosciati

Ingredienti

per l'impasto:

350 g farina 00
150 g farina Manitoba
80 g zucchero
scorza grattugiata di un’arancia
1 uovo
75 g burro
275 ml latte tiepido
20 g lievito di birra
un pizzico di sale

per rifinire:

1 uovo
zucchero a velo
acqua

Procedimento

Setacciare le farine e disporle sul piano da lavoro. Al centro del mucchio praticare una buca e versarvi il lievito sciolto in un po’ del latte tiepido, lo zucchero, la scorza d’arancia, l’uovo, il sale e il burro sciolto, ma tiepido. Amalgamare il tutto con l’aiuto di una forchetta, aggiungendo poco per volta il restante latte tiepido. Lavorare l’impasto sul tavolo per almeno 10 minuti; poi metterlo in una terrina infarinata , coprirlo con del cellophane e porre a lievitare in luogo tiepido fino a quando il suo volume sarà raddoppiato (1 ora circa).

Trascorso questo tempo, riprendere l'impasto, stenderlo col mattarello e tagliare dei triangoli isosceli allungati: porre alla base un nocciolino di marmellata del gusto prescelto, poi arrotolare strettamente. Porre i cornetti su una teglia rivestita da carta da forno, stando bene attenti a fare in modo che la punta rimanga "sotto" il cornetto, in modo che non si alzi in cottura (producendo qualcosa di esteticamente ridicolo). Porre a lievitare la teglia, una seconda volta, coperta, per 20-20 minuti circa.

Quindi, spennellare i cornetti con l'uovo sbattuto e infornare per circa 10-12 minuti in forno preriscaldato (statico o ventilato) a 180°. Non appena sfornate, lasciarli raffreddare, poi decorarli con una glassa ottenuta mescolando dello zucchero a velo con poche gocce d'acqua.


piesse: è un luogo comune anche che Maria Antonietta abbia detto "Il popolo ha fame? Allora dategli le brioches!" La regina era viziata e presuntuosa, ma di fronte ad una folla in tumulto mai avrebbe trovato il coraggio di pronunciare tali parole. Poi va da sé che sia stata ugualmente decapitata, ma questa è un'altra storia.

martedì 3 marzo 2009

Armatevi e partite

Ultimamente, sembra che il rispetto sia diventato una cosa secondaria, di poco conto. C'è chi in autobus ti urta e neanche ti chiede scusa. C'è chi ti passa davanti nella fila alla cassa del supermercato facendo finta di niente. C'è anche chi, come il tale possessore del defunto blog, ha deciso di postare ricette e fotografie non sue, ma appartenenti ai veri foodbloggers come Sigrid, Carolina, essenza di vaniglia, Stella di Sale, Fior di Frolla, e molti altri ancora. Purtroppo non è lui l'unico caso: ve ne sono state e ve ne saranno altre, di persone meschine che si impossessano delle ricette altrui senza chiedere il permesso. Oltretutto, come molti di voi hanno già affermato, un blog di cucina nasce per condividere le ricette con gli altri; nulla avrebbe vietato ai Cotali Schifosi di appropiarsi delle ricette, purché:
1. lo avessero chiesto agli effettivi proprietari;
2. avessero poi inserito la fonte, la sorgente da dove avevano palesemente copiaeincollato le ricette.

Per evitare che in futuro non accadano più casi di plagio, mi unisco anch'io alla lotta dei foodbloggers, appena arrivata in questo mondo che, come quello reale, ha anche i suoi lati negativi:

Per ulteriori informazioni, vi consiglio di andare a leggere il post di Stella di Sale.

Grazie per l'attenzione, ci tenevo a far sapere che anch'io sono con voi!

R.I.P.


Le persone, in generale, tendono ad affezionarsi. Le persone sensibili, invece, tendono ad affezionarsi anche prima, per più tempo, più intensamente. Le persone dal cuore di pietra, infine, si affezionano il meno possibile, anche se, ne sono sicura, qualcosa a cui sono sentimentalmente attaccati ce l'hanno di sicuro anche loro (che so, magari la copertina con cui dormivano quando erano piccoli, e che poi hanno deciso di tramutare in un fazzoletto da taschino proprio perché dal cuore di pietra). Personalmente, mi colloco nella prima categoria: non sono né una persona troppo sensibile (tutte le bambine della mia età, quando Leo Di Caprio muore nel "Titanic" scoppiavano a piangere, io rimanevo impassibile, pensando forse che era un peccato sprecare così un giovane di tal beltade), né una dal cuore di pietra (in fondo in fondo, mi dispiaceva che la storia d'amore di Jack e Rose fosse affondata così miseramente nell'Oceano Atlantico). Per la proprietà transitiva, tendo ad affezionarmi. Affezionarsi ad una persona è comunque più normale; io mi affeziono alle persone che mi vengono incontro e che sento parecchio affini, anche se non le ho mai viste dal vivo, o se le vedo raramente. Tendo ad affezionarmi meno agli animali: dopo la prima micia (tale Clementina), avuta dall'età di sei a quella di dieci/undici anni, non ho trovato particolare riscontro negli esserini a quattro zampe, a due ali e - perché no? - a una pinna. Credo che su questo incida il fatto che il mio piazzale è sprovvisto di un cancello, e si apre direttamente sulla strada: questa condizione particolarmente infelice non ha consentito ai miei batuffoli di pelo di vivere serenamente o, più semplicemente, di vivere (alla fine ho optato per non provarci più, mi sentivo quasi un'assassina inconsapevole). Più facile è per me affezionarmi alle cose. Materialista, direte voi. No, è un semplice fatto di logistica, rispondo io. Tutto ciò per farvi capire come mi sono sentita quando ieri, sul tardo pomeriggio, il mio carissimo forno a microonde combinato multifunzione è venuto a mancare. Un tonfo sordo, un puzzo di bruciato stomachevole e lui lì, spento, inerte, il display oscurato. L'espressione "quando le disgrazie non vengono mai sole" significa che, ogni volta che si presenta un evento sfavorevole, prontamente arriva una catena di altre sfortune. Non c'è caso più appropriato per usare questo detto: ero sola in casa, e stava arrivando la sera. Provando freneticamente ad accendere la luce, mi sono accorta che non solo il beneamato forno aveva detto addio al mondo, ma che anche tutto l'impianto elettrico non dava segno di vita. Neanche il tempo di versare una lacrima per l'oggetto, compagno di mille ricette e tutor della mia carriera culinaria, che già mi trovavo al buio a spennellare di glassa le brioscine, ultimo parto del suddetto. Solo quando sono tornati a casa i miei si è potuto aggiustare il tutto, semplicemente alzando l'interruttore del contatore (le mie abilità domestiche sono piuttosto limitate), ma LUI, lui se n'era andato. Spero che adesso si trovi in un bel posto, in cui può sfornare tante pizzette e tanti muffins, con tanta elettricità a costo zero, e che si possa innamorare di un grazioso tostapane (ho sempre dubitato sul suo orientamento sessuale).
Si dice che Donna, padella e lume sono gran consumo. Messo fuori uso il lume, rimane la padella, per cui, in cerca di un nuovo elettronico amico, si ripiega sul risotto.


Risotto alla zucca profumato al rosmarino

Ingredienti (per 2 persone)

250 g riso Carnaroli
2 scalogni
450 g zucca
brodo vegetale caldo
due rametti di rosmarino
olio, sale & pepe bianco
burro e parmigiano per mantecare

Procedimento

Pulire la zucca e tagliarla a cubetti, più o meno grandi, in modo che i primi rimangano integri in cottura, e che i secondi, invece, si sciolgano; mettere da parte. Versare dell'olio in una padella, aggiungere gli scalogni tritati finemente, e farli appassire a fuoco basso. Quindi, aggiungere la zucca precedentemente tagliata e unire sale e pepe bianco, alzando un po' il fuoco. Far cuocere la zucca per almeno 5 minuti, poi aggiungere il riso e farlo tostare per 2-3 minuti circa, girandolo ripetutamente. Quindi, aggiungere 3 ramaioli di brodo vegetale caldo, chiudere la padella col coperchio e lasciarlo cuocere. Mano a mano, continuare la cottura, aggiungendo altro brodo caldo. A metà cottura unire anche i rametti di rosmarino: se non si vuole che gli aghi della pianta aromatica si disperdano nel riso, tenere i rametti legati con uno spago, e solo all'ultimo toglierli del tutto. Quando il riso è cotto, spegnere il fuoco, e mantecarlo con una nocina di burro e del parmigiano abbondante. Lasciarlo lì per 2 minuti circa, in modo che il tutto si amalgami, quindi servire.

lunedì 2 marzo 2009

Cosa farò da grande?

Quando si è piccoli, una delle domande ricorrenti che parenti, amici di famiglia e anche perfetti estranei rivolgono ai bambini innocenti è: "Cosa farai da grande?" Tale domanda può mettere il bambino in crisi, ponendolo di fronte al suo futuro (di questi tempi, piuttosto magro). Che poi, diciamocelo, che razza di domanda è da porre ad un bambino di otto anni che ancora pensa a giocare coi Gormiti o con le Winx? Oltretutto non so la risposta che gli inquisitori si vorrebbero sentir dire, e che cosa possa a loro interessare (tanto vale chiedere se pensano di sposarsi in Chiesa o al municipio, quando saranno grandi). Mia mamma, col suo solito disarmante senso dell'umorismo, aveva ammaestrato bene la sua unica pargola di soli anni 3 (la figliola in questione sarei io) a rispondere a tono alla domanda più gettonata degli anni '90. Quando mi veniva chiesto, con voce dolce ed affettuosa, che mestiere avrei intrapreso, pensando forse di ricevere in risposta un comune "La ballerina!", io, decisa e convinta, affermavo fiera: "La ponnottar!" (traduzione: "La pornostar!") Ciò procurava l'ilarità di tutti, mentre io rimanevo come un pesce fuor d'acqua, magari chiedendomi perché tutti quegli adulti ridessero di me. A 4 anni, forse perché con l'età si diventa più furbi, chiesi a mia mamma in che cosa consistesse quest'ignobile lavoro. "Beh, Giulia, è una persona che viene pagata per spogliarsi davanti a tutti." Saputo questo, liquidai ben presto la ridicola storia della pornostar quando mio padre mi sfoggiò al lavoro davanti ai suoi colleghi, cercando di rimettere in scena la consueta battuta di routine. La mia risposta fu però tagliente: "La pornostar la farai te!" Detto fatto: da quel momento si chiuse il capitolo pornostar, per mia fortuna. Già all'età di sette anni cominciai ad avere le idee più chiare: volevo fare la scrittrice. Verso i nove anni però, quando si stavano affinando anche le mie capacità imprenditoriali, o piuttosto il comune buonsenso, chiesi a mia mamma se sarebbe stato un lavoro redditizio. Saputo che lo sarebbe stato solamente nel caso in cui i miei libri fossero piaciuti al pubblico, pensai ad un'alternativa nel caso in cui le cose si fossero messe male per me. "Allora come secondo lavoro farò la pasticcera!", sentenziai, ancora bambina, abile ai fornelli solamente se di plastica colorata. Forse avevo un po' annusato il mio futuro. E anche se le mie aspirazioni hanno preso ancora una volta tutta un'altra piega, puntando verso la scienza e la medicina, quel celato desiderio di maneggiare roselline di zucchero e bonbon al cioccolato dietro ad un bancone, è rimasto in me. Da pasticcera mancata - o da aspirante pasticcera -, vi propongo oggi questi pasticcini lemoncocco, morbidi e delicati.

Pasticcini lemoncocco

Ingredienti

150 g farina 00

50 g farina di cocco
200 g zucchero

80 g burro

3 albumi

1/2 bicchiere di latte

1/2 bustina di lievito per dolci

1 limone
zucchero a velo

Procedimento


In una ciotola mescolare farina, latte, il burro sciolto, la buccia grattugiata del limone e il suo succo, infine il lievito. Quindi aggiungere il cocco e mescolare bene. Montare gli albumi a neve fermissima, aggiungendo poco alla volta lo zucchero, come per voler fare una meringa. Unire gli albumi al composto precedentemente preparato con una spatola, mescolando piano dal basso verso l'alto. Versare il tutto negli appositi stampini, e infornare a 180° per 35-40 minuti circa. Una volta freddi, preparare la glassa, sciogliendo lo zucchero a velo con qualche goccia di succo di limone: quando raggiunge una consistenza solida, ma colante, far scendere la glassa sui pasticcini.

domenica 1 marzo 2009

Kàos e kòsmos - tentativo n°4?


Io ci ho provato, vi giuro. Ci ho messo tutta la mia buona volontà, ma proprio non ci riesco, proprio per me è impossibile tenere in ordine le mie ricette. All'inizio della mia "carriera culinaria" (vi ricordate quando avevo problemi solamente ad accendere il forno, no?) mi ero moralmente imposta di non fare come mia mamma, di non tenere le ricette sparse per i cassetti della cucina, piuttosto di tenerle ben ordinate e in un'unica raccolta. Il progetto si è rivelato di lì a poco non praticabile. Le ricette si sono accumulate più velocemente del previsto, soprattutto perché, con la mia smania di provare cose nuove e diverse, non eseguivo mai la stessa ricetta. Il primo tentativo di dare loro un ordine logico è stata l'Operazione Quadernino Rosso: acquistai appositamente un piccolo quadernino ad anelli rosso scarlatto, con tanto di fogli a quadretti e cartoncini divisori col buon proposito di riordinarle. Inutile. Poiché stampavo da Internet le mie ricette, i fogli appena usciti dalla stampante andavano immediatamente a depositarsi, ben ripiegati, nella prima pagina del quaderno (e ancora oggi molte stanno lì, impedendo al povero quadernino di stare chiuso come dovrebbe). Non trovavo mail tempo di copiare a mano le ricette più interessanti, e quelle riuscite e da riprovare postumo. Arrivata al punto di dover scavare per trovare la ricetta che cercavo, ho deciso di dare avvio al secondo tentativo: l'Operazione Archivio Virtuale. Armata di buona volontà, ho cercato di raccogliere le ricette nel computer, dentro alla mia cartellina "Giulia", dapprima in ordine sparso, poi, con l'Operazione Archivio Virtuale - variazioni sul tema, suddividendole in sottocartelle a seconda del tipo di portata. Il risultato? Tanta memoria vanamente occupata, mai trovavo la voglia di "riadattare" le ricette dai siti da cui le prelevavo, talvolta dimenticandomi pure di cancellarne le fotografie. Ormai il mio progetto sembrava un caso perso in partenza. Un'altra occasione mi si è presentata a Natale, quando la mia migliore amica, nonché Cavia dei miei esperimenti culinari, mi ha regalato un delizioso ricettario. È scattato subito il terzo tentativo, l'Operazione Ricettario "a Modino". Impugnata la penna ho pensato che questa era la volta buona, che il ricettario era così carino che ce l'avrei fatta, a riportarci tutte le mie più che collaudate ricette. Poi però l'ho guardato bene. In copertina immagini di muffins, tortiere, Victoria Sponge Cake. È inequivocabilmente un ricettario per dolci: l'operazione è andata in fumo anche stavolta. C'è da dire però, che, perlomeno i dolci, sono quasi tutti in ordine nel suddetto ricettario. Le ricette salate sono ancora sparse tra quadernino rosso e cassetti, invece. L'unica ricetta che so sempre dov'è e dove posso trovarla, è quella della piadina. Solitamente è piegata a 4 e si trova in fondo al quadernino nel cassetto a sinistra del tinello. Quando, inspiegabilmente, non la trovo lì, so però dove rivolgermi. La propose Adrenalina, ed è diventata una ricetta utilissima per delle cene veloci, ma ugualmente sfiziose, oppure per sostituire il pane quando manca. Niente ha da invidiare alle piadine che si acquistano, ed è sicuramente più sana e più leggera. Farcita calda col prosciutto toscano è semplicemente divina, ma anche l'alternativa con ricotta e bietoline saltate in padella non è da meno. (Ro)magna mia!


Piadina


Ingredienti (per 4 piadine)

250 g farina 00
120 g acqua tiepida

2 cucchiai di olio extravergine d'oliva (oppure 40 g di strutto)
mezzo cucchiaino di sale


Procedimento


In una terrina mescolare la farina con il sale, aggiungere poco alla volta l'acqua tiepida e l'olio e impastare velocemente, fino ad ottenere un composto ben amalgamato. Quindi, dividerlo in parti uguali e stenderlo con il mattarello in sfoglie sottili di circa 25 cm di diametro. Mettere la sfoglia in una padella antiaderente calda e farla cuocere per circa 1 minuto e mezzo/2 per lato, bucherellando le bolle d'aria che si formano durante la cottura. Farcire e gustare.